Il film: «Marx può aspettare» ovvero una confessione laica (ma non troppo) sullo schermo

La libertà nel linguaggio filmico, la rabbia personale e generazionale, la voglia di smascherare tutte le ipocrisie del proprio ambiente di provenienza fecero del regista ventiseienne, Marco Bellocchio, un autore a pieno titolo riconosciuto in tutto il mondo. Oggi, a ottanta anni suonati, Bellocchio continua a dimostrare una freschezza espressiva e una capacità di mettersi in discussione davvero sorprendenti.

La famiglia disfunzionale che era al centro del suo primo film, lacerata al suo interno tra un’educazione cattolica tradizionalista, oppressiva e ricattatoria, le istanze rivoluzionarie giovanili, all’epoca soltanto intuite, e il germe della malattia mentale che rodeva i legami domestici sono poi diventati il tema conduttore di tanti titoli successivi. Più o meno Bellocchio si è sempre ispirato alla propria storia personale, al rapporto conflittuale con la madre, a quello con un fratello malato di mente dagli impulsi matricidi e a quello con un fratello gemello, Camillo, suicidatosi nel 1968, per raccontare dei drammi laceranti, a volte urlati al limite della trasgressione, altre più sottaciuti ma non meno intensi.

Oggi Bellocchio, con questo documentario, affronta direttamente il senso di colpa che lo ha accompagnato in tanti anni per la perdita di Camillo, parlandone con gli altri fratelli superstiti della sua numerosa famiglia. È una confessione, laica, di omissione di soccorso di cui ora arriva a rendersi conto pienamente; di quanto il disagio esistenziale che attanagliava Camillo fosse stato sottovalutato nonostante gli appelli che il giovane “senza qualità” mandava ai fratelli più dotati; di come ognuno dei familiari sia stato un essere a sé stante senza apparente solidarietà. Certo, fanno eccezione le due sorelle che, forti anche di convinzioni spirituali, sono riuscite a superare quei drammi con maggiore equilibrio rispetto alle fughe ideologiche dei maschi. In questo senso va letto il titolo: «Marx può aspettare» è ciò che Camillo disse nel loro ultimo colloquio a Marco, quando quest’ultimo cercava di coinvolgerlo nella sua infatuazione sessantottina. Ma il gemello di ben altro aveva bisogno, e soltanto adesso il grande regista lo comprende.

Tra gli intervistati colpisce e commuove rivedere l’amico Virgilio Fantuzzi, gesuita critico cinematografico di raro acume e dedizione apostolica, che dialoga con Bellocchio facendogli notare come i suoi film, pur così iconoclasti nelle intenzioni, non sono altro che tappe di una via crucis dove anche la tanto contestata mamma del regista trova la sua collocazione di mater dolorosa e il fratello suicida (mescolato a quello pazzo) incarna, per puro paradosso, il punto culminante del grido di Gesù sulla croce attraverso le bestemmie disperate che sentiamo urlare in L’ora di religione dal personaggio di Egidio in manicomio. La confessione laica, per Fantuzzi, potrebbe trasformarsi in una sacramentale se solo lo scetticismo di Bellocchio (prima ancora delle sue attestazioni di ateismo) non facesse resistenza.

Si dirà: è solo un film per cinefili interessati a studiare i nodi irrisolti del regista e dei suoi parenti. No, è anche un sincero tentativo di mettere a nudo la propria anima, senza infingimenti narrativi, con l’onestà intellettuale di chi sente che, negli ultimi anni della propria vita, deve fare i conti con un passato ingombrante. E tutto questo, proprio perché è autenticamente umano, può servire alla crescita di ogni spettatore.

 

Marx può aspettare

Documentario scritto e diretto da Marco Bellocchio; con vari membri della famiglia Bellocchio e padre Virgilio Fantuzzi s.j.; musica: Ezio Bosso; fotografia: Michele Cherchi Palmieri, Paolo Ferrari; montaggio: Francesca Calvelli, durata: 96 min.