Il film: “Maria”, la Divina Callas al tramonto
Dopo l'anteprima mondiale l'agosto scorso alla 81ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e la partecipazione al Telluride Film Festival, arriva in sala «Maria», ultimo capitolo dell'ideale trilogia sulle grandi donne del XX secolo di Pablo Larraín
Il cileno Pablo Larraín ha cominciato la sua ideale trilogia sulle grandi donne nel XX secolo nel 2016, immortalando Jacqueline Kennedy in «Jackie», e l’aveva poi proseguita nel 2021 dedicando a Lady Diana il suo «Spencer». Per l’ultimo capitolo della trilogia, passato prima all’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e poi al Telluride Film Festival, si rivolge invece al mondo dell’arte, raccontando l’ultima settimana di vita della leggendaria soprano Maria Callas.
Troviamo la Divina a Parigi, nel 1977, lontana dalle scene da più di quattro anni, rinchiusa in un lussuoso appartamento in compagnia della sola servitù e ossessionata dai fantasmi del passato, generati in egual modo dalla nostalgia della passata gloria e dagli psicofarmaci di cui abusa. Immaginando un’intervista televisiva, la diva ripercorre la sua vita, dalle umili origini in Grecia alla storia col miliardario Aristotele Onassis.
Come con i due precedenti film della trilogia, sarebbe un errore considerare «Maria» un film biografico in senso stretto: l’intento di Larraín non è quello di raccontare filologicamente la vita della propria protagonista, ma al contrario di darle, attraverso il potere narrativo e creativo del cinema, la possibilità di riscrivere la propria storia, di correggerne le storture, aggiustarne i torti, rivendicare scelte mai fatte, inventare di sana pianta per aggiungere drammaticità o proiettando i pensieri della sé matura su una controparte giovane per la quale sarebbero stati del tutto anacronistici.
Come con la fuga liberatoria di Diana alla fine di «Spencer», anche la Callas di Angelina Jolie, particolarmente intensa e dolorosamente vicina al personaggio più per analogia che per somiglianza fisica, ha l’opportunità di ri-raccontarsi e re-inventarsi, accompagnando il pubblico nello sconfinato palcoscenico che è la sua mente. Lo stile di regia si adatta di conseguenza, ed ecco che i flashback degli anni più lontani assumono lo stile e il bianco e nero del neorealismo, mentre la camera, la fotografia e il formato si adattano a quelli di un documentario televisivo anni Settanta. Tutto il resto, invece, vede ogni inquadratura incorniciata come fosse un palcoscenico, con tanto di scorci parigini da cartolina e comparse che in perfetto stile musical improvvisano arie da Puccini, Bellini, Leoncavallo, Schubert, Verdi.
Seppur accompagnata dai fedelissimi domestici Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, il mondo della cantante è popolato soprattutto di fantasmi, alcuni dei quali la ricollegano direttamente alle precedenti eroine di Larraín: Onassis (Haluk Bilginer, buca lo schermo) è un ovvio trait d’union con Jackie Kennedy, mentre la Anna Bolena che Callas interpreta nel vano tentativo di tornare sulla scena crea un ponte con Diana, che col fantasma della seconda moglie di Enrico VIII dialogava in «Spencer».
Muovendosi in un mondo barocco, roboante, esageratao, sempre in bilico tra realtà e allucinazione, «Maria» restituisce la voce alla diva che l’ha perduta, offrendole una seconda occasione di calcare la scena stavolta alle proprie condizioni, libera da ogni condizionamento, che siano le imposizioni di un amante possessivo o le catene della propria storia. Libertà e vanità, riscatto e bellezza, narcisismo e dolore: con la chiusa della propria trilogia, Pablo Larraín rivendica il privilegio del cinema di plasmare la realtà attraverso le storie che racconta, e scava nella psiche di una delle più grandi artiste del secolo scorso per permetterle di presentare una versione di sé che non è mai stata, ma che avrebbe potuto (voluto?) essere.
MARIA di Pablo Larraín. Con Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Kodi Smit-McPhee, Haluk Bilginer. Cile, Italia, Germania, 2024. Drammatico.