Il film: “Hope”, non una pellicola sulla morte, ma sull’amore
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La vicenda potrebbe far temere un “lacrima movie” come quando al cinema si affronta una malattia terminale, ma tranquilli, siamo più dalle parti di Caro diario che di Love Story: il tumore al cervello che all’improvviso Anja, un’affermata coreografa svedese, scopre di avere, con previsione di vita di tre mesi, non dà adito a piagnistei, bensì a una seria revisione della propria vita, delle relazioni, degli affetti, dei valori in cui credere.
La storia si concentra nei giorni che vanno dal 22 dicembre al 2 gennaio. Lei è in tournée e rientra in famiglia – una famiglia allargata, che comprende il suo compagno, Tomas, più anziano, anch’egli impegnato nel teatro, i tre figli di lui e gli altri tre avuti con Tomas –, in un bell’appartamento dove la sua assenza si fa notare per una certa disinvolta trascuratezza. Sono i giorni di Natale e anche il padre di Anja è con loro per passare assieme le feste. Feste che si riducono all’addobbo dell’albero, simbolo di luce nella spiritualità luterana, ormai ridotto a elemento decorativo che troneggia in ogni ambiente, anche ospedaliero. Solo il vecchio padre sembra dimostrare una continuità di fede portando i nipoti alla liturgia della notte di Natale: per Anja e per Tomas le preoccupazioni sono altre. Lui si dimostra il più disperato alla prospettiva della morte della compagna, mentre lei accetta il verdetto con apparente rassegnazione, ma rivelando uno smarrimento e una sensibilità umorale, acuita dalle cure, con cui è difficile per gli altri rapportarsi.
I figli e gli amici più cari vengono messi al corrente della questione, soprattutto in prospettiva di una operazione, fissata per il 2 gennaio, rischiosa, ma che lascia una seppur minima speranza di riuscita. Con questa scadenza di fronte, Anja cerca di far chiarezza sui suoi veri sentimenti, su un tradimento di lui, sulla preoccupazione per i suoi propri figli: la prospettiva della morte le dà l’occasione per tendere finalmente all’autenticità. E anche la proposta di lui di sposarsi, in chiesa, prima dell’intervento chirurgico, accolta dapprima con disappunto, sarà la chiave di volta per la sua esistenza e per il film. Fino ad allora lo stile di regia è stato quello tipico del cinema scandinavo, memore del movimento “Dogma 95” che prevedeva l’uso della macchina da presa a mano, dell’improvvisazione, delle luci naturali e dell’eliminazione di ogni abbellimento formale; d’un tratto, dopo la cerimonia in chiesa, assistiamo a un cambiamento che consiste nel colloquio tra Anja e la figlia più grande di cui udiamo le considerazioni sull’affetto profondo rivelato dai genitori già sulle inquadrature precedenti; nella carrellata laterale fluida che segue Anja, accompagnata da Tomas, fino alla sala operatoria; nel finale, che non riveliamo, che è una splendida traduzione della dimensione spirituale del matrimonio come unione di due anime e due corpi. Solo su quelle ultime scene partono le note della colonna sonora (le musiche sentite in precedenza sono interne alla storia), una mirabile aria di Vivaldi che recita: «Vedrò con mio diletto / l’alma dell’alma mia / il core del mio cor / pien di contento. / E se dal caro oggetto / lungi convien che sia / sospirerò penando / ogni momento». Sono la degna espressione di un amore riscoperto.
Hope (t.o.: Håpødahl; fotografia (colore): Manuel Alberto Claro; interpreti: Andrea Bræin Hovig (Anja), Stellan Skarsgård (Tomas); origine: Norvegia-Svezia-Danimarca, 2019; formato: 1:2,39; durata: 125 min.