Il film: “Esterno notte”. “Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”

Bisogna ricordare che nel 2003 Bellocchio aveva realizzato Buongiorno, notte, dedicato al rapimento di Aldo Moro, rileggendo la vicenda umana e politica dello statista ucciso dalle b.r. non solo in chiave politica e umana, ma soprattutto psicologica: Moro assurgeva al ruolo di Grande Padre da sopprimere ritualmente da parte di una compagine di esaltati, così come nel film precedente, L’ora di religione (2002), si assisteva alle conseguenze insane di un matricidio. In entrambi i casi, il risultato degli assassini era esattamente l’opposto di quanto speravano: facendo morire degli innocenti li si santificava rendendoli, quindi, eterni. Per questo in Buongiorno, notte c’erano due finali: quello auspicato, “sano”, che consisteva nel rilascio di Moro grazie all’imbroglio di una brigatista, e quello storico con le immagini di repertorio dei funerali di Stato in absentia.

Esterno notte ritorna su queste premesse (inizia con Moro rilasciato e ricoverato in ospedale che riceve la sgradita visita di Cossiga, Andreotti e Zaccagnini) per allargare l’analisi a quei fatti che restano una ferita aperta nella nostra storia e nella coscienza collettiva. Ci sono due tesi di fondo che attraversano i sei episodi, ognuno dedicato a un diverso personaggio coinvolto nella tragedia (Moro; Cossiga; Paolo vi; Adriana Faranda; Nora, la moglie di Moro; infine di nuovo lui): la prima è lo sbaglio politico delle br di aver reso pubblica la lettera di Moro a Cossiga, all’epoca Ministro degli Interni, impedendo così una trattativa segreta; la seconda, il compattamento della d.c. intorno ad Andreotti con la decisione della linea intransigente di non trattare con i brigatisti. Ne emerge il desiderio tutto umano da parte di Moro di non voler morire, la sofferenza dignitosa e impotente di sua moglie, il tormento psicosomatico di Cossiga, gli inutili tentativi del Papa di favorire un dialogo, il delirio fanatico dei terroristi, sorta di bambinoni intrisi di ideologia che sparano in aria per sentirsi qualcuno, come i camorristi o i fondamentalisti islamici, sognando le sparatorie coreografate da Sam Peckinpah nel Mucchio selvaggio (1969).

Da un lato vediamo un Moro moderato, cauto, democristiano nell’accezione negativa del termine, ma capace di intravvedere prospettive politiche nuove grazie al compromesso storico che proprio il suo rapimento farà naufragare; dall’altro la soddisfazione per lo status quo di diversi membri del suo partito e degli esaltati nichilisti pronti a immolare e immolarsi sull’altare di una presunta rivoluzione proletaria in cui loro stessi non credono. Ma prima che politica, la chiave di lettura di Bellocchio è, come al solito, psicanalitica: prova ne è il breve episodio di quell’automobilista fermato dalla polizia che esce gridando esaltato di essere colpevole di aver ucciso suo padre. Più che Marx, a dominare sugli anni di piombo c’era Edipo.

Il racconto – che necessiterebbe uno spazio di analisi ben più ampio di questo – alterna ricostruzioni storiche puntigliose, con prestazioni attoriali al limite della mimesi (Gifuni-Moro su tutti), fantasie narrative (le confessioni, le visioni), materiale di repertorio, impennate autoriali come i sogni con cui termina ogni episodio, le corse nei corridoi, Moro che porta la croce di fronte ai suoi compagni di partito, il sangue che cola sulla piantina di Roma di fronte a un Cossiga attonito. Il cartello finale ci avverte che i fatti raccontati sono frutto di ricerca storica documentata, ma anche della libera fantasia degli autori: in questa prospettiva va letto il progetto, che affronta dei fatti lontani, legati a una notte condivisa, osservati, per quanto possibile, dall’esterno, dove c’è luce. Magari eterna.

 

Esterno notte