Il film: due lavori per celebrare l’eterna Sophia Loren

Per una curiosa coincidenza, il primo film tratto dal libro, diretto dall’israeliano Moshé Mizrahi, strappò nel 1978 l’Oscar per il miglior film straniero a Una giornata particolare (ultimo vero capolavoro interpretato da Sophia), probabilmente per l’incoraggiamento implicito al dialogo arabo-israeliano che la storia conteneva (in quell’anno ci furono gli accordi di Camp David), evocato dall’appartenenza etnica dei due protagonisti: l’ebrea Madame Rosa (una splendida Simone Signoret che a un dato punto pronuncia Inshallah) e il piccolo magrebino Momo (che invece recita lo Shema Israel).

Nel nuovo film cambiano i tempi (la vicenda è ambientata al presente) e i luoghi (da Parigi si passa a Bari). La dinamica narrativa resta la stessa ma concentrata in soli sei mesi: Mme Rosa, dopo aver smesso la professione sbarca il lunario tenendo in casa i bambini di altre prostitute. Su pressioni di un medico filantropo accoglie un adolescente senegalese, Momo, che da un iniziale rifiuto finirà per volerle bene e adempiere le sue ultime volontà, cioè morire non in ospedale ma nel rifugio personale che l’anziana si è allestita in cantina. Lì fa convivere i ricordi di una vita, belli e brutti: dalla cartolina di Viareggio piena di mimose di quando era ragazza al numero tatuato sul polso, segno indelebile della tragedia di Auschwitz di cui lei pure è stata vittima.

Nel corso del racconto assistiamo al cambiamento di Mme Rosa che da donna burbera e spiccia si lascia andare alla tenerezza dei ricordi e degli affetti, ma soprattutto a quello di Momo, abile delinquentello di strada che saprà tener fede a una promessa (anch’essa pronunciata in ebraico, da lui piccolo islamico inconsapevole dei valori della propria religione). Rispetto al testo d’origine, sono sparite, purtroppo, certe riflessioni di fede della donna che sostiene di non voler più avere a che fare con l’Onnipotente, ma di essere pronta a perdonarlo per ciò che le ha fatto passare: un paradosso che riassume molta della spiritualità ebraica successiva all’Olocausto.

Non tutto torna nel racconto (non si capisce, per esempio, perché Rosa si faccia chiamare alla francese, cosa ci faccia, lei napoletana, a Bari e come sia finita sul marciapiede visto che era di buona famiglia), ma bisogna riconoscere una grande naturalezza nella messa in scena e una direzione attoriale di prim’ordine. Ovviamente su tutti svetta lei, Sophia, che dà il meglio di sé nei mezzi toni senza risparmiarsi allo sguardo impietoso dell’obiettivo. Un film delicato e redentivo, dai molti – forse troppi – argomenti toccati.

What Would Sophia Loren Do? di Ross Kauffman è invece un bel documentario dedicato a un’attempata signora italoamericana, Vincenza Careri, che ha vissuto chiedendosi sempre: cosa farebbe Sophia al mio posto? L’aver mitizzato l’attrice simbolo di italianità (e quindi richiamo alle sue origini), attribuendole le doti di coraggio e determinazione di certi suoi personaggi (primo fra tutti la Cesira della Ciociara), ha permesso a Vincenza di superare delle dure prove, come la perdita di un figlio. Arrivata all’età di 82 anni, le è stato organizzato un incontro con Sophia, e il film ce lo racconta con la semplicità di una rimpatriata tra vecchie amiche. Un piccolo tassello, questo mediometraggio (sempre targato Netflix), che va a completare il doveroso omaggio a una grande interprete.