Il film della settimana. «Un divano a Tunisi», arabi che pagano per raccontare i fatti loro

 Lo sono al punto che l’elemento di spicco del film non è tanto l’apertura di uno studio di psicanalista, ma proprio la problematica della nazionalità. Più di una volta interrogata al riguardo Selma risponde di essere francese e, a conti fatti, di non sapere esattamente il perché del suo ritorno in Tunisia. Dev’essere una domanda che anche Manele Labidi si deve essere posta a più riprese e che non ha necessariamente una risposta diretta e decisa. Come a dire che le radici hanno la loro importanza, ma che anche l’ambiente e la cultura nei quali una persona è cresciuta hanno un peso sulla sua definizione di essere umano. Da qui in avanti il resto è commedia, a partire dalla battuta di una parente di Selma: “Gli arabi dovrebbero pagare per raccontare i fatti propri? Non avrai alcun successo”.

Selma apre uno studio di psicanalisi in una stanza sul tetto di casa, nella quale fanno bella mostra di sé un divano (immancabile, naturalmente) e una fotografia incorniciata di Sigmund Freud con in testa un fez. E, imprevedibilmente, la voce si sparge e la gente forma una lunga coda sulle scale e davanti alla porta. Proprio tutti: un’appariscente parrucchiera, un imam molto triste, un paranoico che sogna dittatori arabi (ma anche Putin), un’adolescente che sogna di lasciare la Tunisia e via dicendo. Perché in un paese dove vige ancora la legge del silenzio chiunque è disposto a “vuotare il sacco” su un divano a una persona che non conosce? Forse perché Selma ascolta e dà la possibilità di liberarsi di pesi di vario genere. Ma anche lei dovrà combattere con la burocrazia per ottenere l’autorizzazione ad esercitare, a rischio di essere arrestata dallo zelante poliziotto Naim che è attratto da lei ma non può chiudere un occhio sulla legge.

A dispetto del retrogusto amaro nella rappresentazione di un paese dalle mille restrizioni nel quale è molto difficile realizzarsi soprattutto per una donna, Un divano a Tunisi mostra nell’autrice una vocazione brillante da non trascurare, anche perché le situazioni da commedia non le impediscono di tirare le fila di un discorso tutt’altro che leggero. Con la collaborazione di Golshifteh Farahani, una protagonista capace di sorridere e di fermarsi a riflettere senza dare mai l’impressione di forzare i toni, Manele Labidi riesce a percorrere una strada a due corsie: una per la commedia con una grande ricchezza di caratteristi e personaggi buffi, una per l’analisi sociale e politica, dove gli stessi personaggi buffi concorrono a comporre un quadro che reclama la necessità di un cambiamento. Tutto questo senza mai divagare dal binario più importante, che resta quello della commedia: un genere che non ha mai impedito a chi veramente lo voglia di mascherare con il sorriso la volontà di un’analisi più profonda. Diremmo che il momento più pregnante e in un certo senso ispirato del film si possa indicare nell’incontro notturno con Sigmund Freud, che dà un passaggio a Selma appiedata per un guasto alla macchina. Si tratta evidentemente di un incontro sognato: ma si tratta di un sogno ben concertato perché, a Selma che lo osserva incantata, Freud per tutto il viaggio non dice neanche una parola. Qui e soltanto qui Manele Labidi si ricorda di Woody Allen, ad esempio quando in Io & Annie, disturbato dagli sproloqui di un uomo in coda per entrare al cinema, fa apparire Marshall McLuhan da dietro un cartellone per confutare le sue bestialità. Poi Labidi va per la sua strada e ci fa riflettere divertendoci.

UN DIVANO A TUNISI (Un divan à Tunis) di Manele Labidi. Con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura, Aïsha Ben Miled, Feryel Chammari. FRANCIA/TUNISIA 2019; Commedia; Colore