Il film: con gli occhi di un bambino nell’Irlanda di Belfast

Se c’è un elemento comune tra gli effetti che la pandemia e gli annessi lockdown hanno avuto sul cinema è quello dell’autobiografia: molti autori e registi, in Italia e all’estero, hanno sfruttato il momento di fermo forzato per guardare a sé, al proprio percorso e alla propria interiorità, portando poi sullo schermo, al momento delle riaperture, frammenti di storia privata, personalissime rivisitazioni del passato, auto-indagini rivelatorie, ricche, sincere.

Non fa eccezione Kenneth Branagh, che con Belfast presenta una versione romanzata della propria infanzia nella cittadina irlandese del titolo. L’anno è il 1969, e l’Irlanda del Nord comincia a soffrire per quelli che sono eufemisticamente noti come i Troubles (i “guai”), una sanguinosa guerriglia urbana tra la popolazione protestante e quella cattolica. In questo contesto instabile e teso si muove Buddy, il giovanissimo avatar di Branagh, che vede le relazioni con gli amici, col fratello, coi genitori e con i nonni modificarsi rapidamente alla prospettiva di un prossimo trasferimento a Londra, in cerca di una sistemazione più tranquilla.

Il film parte come uno spot da agenzia di viaggi, una ripresa da drone della moderna Belfast e dei suoi luoghi più iconici, che sfuma lentamente in un bianco e nero che presenta invece la Belfast del passato, quella che non conosce Cave Hill, il Museo del Titanic, i murales del Gaeltacht Quarter o il castello, ma che inizia e finisce nel piccolo quartiere in cui famiglie cattoliche e protestanti vivono in armonia fino all’inizio dei Troubles, una singola strada che è l’intero mondo per Buddy.

Il protagonista, il bravissimo esordiente Jude Hill, è il narratore implicito dell’intera vicenda, concretizzazione dei ricordi del Kenneth Branagh di nove anni: nel suo mondo in bianco e nero, gli unici elementi a colori sono i film, le serie e gli spettacoli teatrali che vede, gli stessi che caratterizzeranno la sua filmografia da adulto (spuntano Agatha Christie, la Marvel Comics, e ovviamente William Shakespeare), e che nel contesto plasmano il suo modo di vedere le cose. Star Trek, Mezzogiorno di fuoco, Chitty Chitty Bang Bang, Canto di Natale, sono tutte chiavi di lettura che aiutano a costruire l’immaginario infantile che fa da filtro alla vicenda. I genitori Jamie Dornan e Caitríona Balfe sono allora bellissime e innamoratissime figure danzanti, i cattivi sono felloni bidimensionali che vengono sconfitti in un duello stile western sulla strada maestra, i nonni (Judi Dench e Ciarán Hinds, decisamente i migliori in scena) sono affettuose fonti di saggezza da fiaba, e le ragioni sociopolitiche del conflitto in corso sfumano in un incomprensibile rumore di fondo, elemento secondario perfino alle scorribande tra ragazzini.

Ogni elemento in Belfast pare ribadire che le radici di Kenneth Branagh, del suo cinema shakespeariano e dei suoi musical mozartiani, dei (mediocri) blockbuster con la Disney e degli adattamenti di alta letteratura, sono tutte lì, in quella strada nella capitale nordirlandese che per un po’ è stata tutto l’orizzonte possibile.

Apertosi al pubblico, Branagh (si) racconta con enorme affetto e inaspettata misura, riuscendo a coinvolgere e commuovere, portando il pubblico a vivere e conoscere momenti di straordinaria intimità e umanità nascosti tra le pieghe di una sanguinosa guerriglia urbana, illuminando le storie nella Storia, e regalando una bella finestra aperta su un passato che, in qualche modo, da individuale  e personale diventa parte di tutti.

 

BELFAST di Kenneth Branagh. Con Jude Hill, Caitríona Balfe, Jamie Dornan, Ciarán Hinds. GB, 2021. Drammatico.