Il film: “C’era una volta in Bhutan”, genesi della più giovane democrazia del mondo

Dopo il passaggio ai Festival di Telluride, Toronto e Roma, arriva in sala «C'era una volta in Bhutan», il film di Pawo Choyning Dorji scelto per rappresentare il Bhutan agli Oscar per il Miglior film straniero del 2024

Per essere la miglior forma di governo al mondo – oppure la peggiore fatta eccezione per tutte le altre, come diceva Churchill –, la democrazia è un traguardo che raramente si ottiene senza rivoluzioni sanguinose, senza conflitti, senza colpo ferire. Eppure è quello che è successo nel 2006 in Bhutan, quando il re Jigme Singye Wangchuck ha abdicato e ha indetto le prime elezioni libere nel paese, che già si avviava alla modernizzazione complici la recente introduzione della televisione e di internet.

Pawo Choyning Dorji, indiano di nascita ma bhutanese di adozione, racconta questo momento di passaggio dalla prospettiva di una piccola comunità rurale che, tutto sommato, di questo grande dono non sa bene che farsene, anzi, rimpiange quasi la monarchia e teme la conflittualità, le divisioni e la maleducazione che queste prime elezioni stanno introducendo nel paese.

«C’era una volta in Bhutan» segue diversi personaggi che si incontrano e incrociano per tutta la durata del film: ci sono le avventure quasi picaresche di un collezionista americano e della sua guida, alla ricerca di un raro fucile della Guerra Civile; una funzionaria mandata dalla capitale per superivisonare le “elezioni di prova” che insegnino ai cittadini a votare; una piccola famiglia che si ritrova separata da amici e parenti per via delle diverse simpatie politiche del capofamiglia. C’è soprattutto un giovane monaco, Tashi, incaricato dal Lama di procurarsi due fucili per il giorno delle elezioni, “per rimettere a posto le cose”.

Dorji sfrutta le molteplici prospettive per restituire al pubblico la complessità di un fenomeno che colpisce nel profondo una popolazione abituata a vivere letteralmente “fuori dal mondo”, un po’ sospesa nel tempo tra le montagne dell’Himalaya come visto nel precedente «Lunana – Il villaggio alla fine del mondo». Anche se con un piglio a tratti un po’ da cartolina, è in questa moltitudine di sguardi che si svela piano piano la natura e l’identità di un paese unico, per cui la Coca-Cola è “acqua nera” e che vota il partito giallo perché gli ricorda le vesti del sovrano.

Il film mantiene sempre toni leggeri, una commedia a tratti surreale che non teme di presentarsi come una vera e propria fiaba, la storia romanzata e affettuosa di un passaggio epocale che ha aperto uno degli stati più isolati del pianeta al resto del mondo, con tutti i cambiamenti, buoni e cattivi, che questo ha comportato.

Per un pubblico occidentale, abituato a vedere la democrazia come un proprio mito fondante, non forma di governo frutto di un preciso percorso storico e culturale ma “dono” da elargire al resto del mondo per avviarne la civilizzazione, un film come «C’era una volta in Bhutan» è una voce preziosa, che con bonarietà e spirito giocosamente satirico sottolinea i limiti e le contraddizioni insite in ogni sistema politico.

Pawo Choyning Dorji confeziona una storia piacevolissima, che tra personaggi brillanti, situazioni divertenti e paesaggi struggenti, fotografa i giorni di transizione tra “il paese che non è più” e “il paese che sarà”, giocando nel frattempo con le aspettative del pubblico e montando ad arte un finale rasserenante e liberatorio. Si lascia la sala con un sorriso, e da un film così non si può chiedere di più.

C’ERA UNA VOLTA IN BHUTAN di Pawo Choyning Dorji. Con Tandin Wangchuk, Tandim Sonam, Pema Zengpo Sherpa, Deki Lhamo. Bhutan, Taiwan, Francia, USA, Hong Kong, 2023. Commedia.