Il film: cento domeniche per costruire una casa, una per perderla
Presentato alla Festa del Cinema di Roma, arriva in sala «Cento domeniche», opera quinta dell'Antonio Albanese regista, la prima che si distanza dal linguaggio e dai toni della commedia.
La prima cosa che vale la pena notare di «Cento domeniche», prima regia di Albanese dal 2018 di «Contromano», è che la distanza tra Antonio, regista sceneggiatore e interprete, e Antonio, personaggio protagonista, è ridotta al mininimo, quasi annullata in un’identificazione quasi totale. La sovrapposizione tra i due è tale da far pensare quasi a una vita parallela, in cui il cabaret e il teatro prima, la Gialappa’s Band e il cinema poi, non hanno cambiato la vita di Antonio Albanese, operaio di una fabbrica di Olginate, nel lecchese.
Questo “altro” Antonio è quindi un operaio in prepensionamento, che divide il proprio tempo tra la madre a carico, la figlia avuta da un matrimonio fallito, l’amante segreta che in un piccolo paese tanto segreta non è e gli amici della bocciofila. Quando la figlia si sposa Antonio vuole pagare il matrimonio come ha sempre sognato, ma la banca che conserva tutti i suoi risparmi è in crisi, e con un giro di truffe i piccoli risparmiatori si trovano privati di tutto il capitale faticosamente messo insieme in anni di lavoro.
Proprio il lavoro è al centro del film, un lavoro semplice ma onesto, fatto di ore di impegno e di sudore – anche letteralmente, con le cento domeniche del titolo che indicano quelle occorse a uno dei personaggi per costruire la propria casa, persa poi a causa di investimenti mai voluti e di firme apposte a carte mal spiegate. Il valore di questo lavoro è negato e spazzato via da quello virtuale e fumoso dei grandi capitali, delle bolle economiche e dei crac programmati, di tutti quei meccanismi di un tardo capitalismo duro a morire che rovina i piccoli risparmiatori, a cui il film è dedicato, per salvare i grandi imprenditori e azionisti.
Albanese dirige con un manicheismo magari ingenuo e semplicistico, ma efficace e vibrante di indignazione. Se i dialoghi, scritti assieme a Piero Guerrera, non sempre brillano per spontaneità e realismo, la forza di «Cento domeniche» sta nell’impostare la vicenda come una tragedia classica calata nel contemporaneo, trasformando la crisi finanziaria in un Fato cieco e crudele, infausto quanto ineluttabile, trasmettendo il senso di angoscia legato a un destino inevitabile.
Per molti versi la parabola messa in scena da Albanese è vicina spiritualmente all’episodio con Fabrizio Bentivoglio e Giuseppe Battiston visto ne «I peggiori giorni» di Massimiliano Bruno e Edoardo Leo, ma guarda anche ad altri modelli, primo tra tutti il cinema socialmente impegnato di Ken Loach e dei fratelli Dardenne, oltre che evidentemente al Sebastián Borensztein di «Criminali come noi».
La volontà di Albanese di erodere quanto più possibile la distanza tra sé stesso e il proprio personaggio, arrivando a girare nel proprio paese natale e perfino nella fabbrica in cui ha lavorato prima di diventare attore, riesce però a mantenere la prospettiva personalissima e sincera, e il suo intento di raccontare una storia che dia voce a migliaia di altre centra il bersaglio, coinvolgendo in un vortice di angoscia, sogni infranti, fiducia tradita.
Rispetto all’Albanese più noto al grande pubblico, un brusco ma riuscitissimo cambio di direzione.
CENTO DOMENICHE di Antonio Albanese. Con Antonio Albanese, Liliana Bottone, Donatella Bartoli, Elio De Capitani. Italia, 2023. Drammatico.