DI FRANCESCO MININNIIl regista ungherese Istvàn Szabò aveva già esplorato il difficile rapporto tra arte e potere nell’esemplare «Mephisto». Se a distanza di tanti anni, con «A torto o a ragione», torna sull’argomento, è per affrontarlo da un diverso punto di vista. Non più un servo del potere che si nasconde dietro l’affermazione: «Sono solo un attore», ma un artista di valore assoluto che con la sua musica è convinto di combattere sempre per la giusta causa. Nel caso specifico si tratta di Wilhelm Furtwangler, grande direttore d’orchestra che, a differenza di altri suoi colleghi, non scelse la via dell’esilio al momento della presa del potere da parte di Hitler. Per questo motivo finì nel mirino dei tribunali di guerra americani, intenzionati a dare un esempio a tutto il mondo individuando e condannando, se non tutti i collaborazionisti, certamente i più in vista.Ripercorrendo le tappe dell’inchiesta condotta dal maggiore Arnold, Szabò adotta l’unico punto di vista possibile: quello cioè di esporre le ragioni di entrambe le parti, di modo che ogni spettatore possa poi formarsi una propria opinione e (ma l’espressione non è delle più felici) emettere un proprio giudizio. Se da una parte la storia insegna che Furtwangler non fu mai iscritto al partito e che aiutò anche più di un ebreo a sfuggire alla deportazione, dall’altra annota anche che non subì mai alcuna persecuzione e che potè proseguire liberamente nella propria attività artistica. Da qui i dubbi di Arnold, assommati al fatto che le gerarchie statunitensi hanno già deciso che il maestro dovrà subire una punizione esemplare.Il confronto dialettico tra Arnold e Furtwangler contiene momenti emozionanti e altamente drammatici, con l’importante contributo di un giovane ufficiale e della segretaria (figlia di uno degli ufficiali che attentarono alla vita di Hitler). Da una parte il senso della storia di Szabò, dall’altra la solidità del testo teatrale di Ronald Harwood rendono «A torto o a ragione» un bell’esempio di cinema da camera denso di significati, nel quale la tensione non viene mai meno costringendo chiunque a prendere una posizione. Si percepisce con grande chiarezza la figura dell’artista che non vive esattamente in una dimensione comune, ma viaggia al di sopra della realtà perdendone talvolta i contatti. Ma si percepisce anche l’accanimento degli accusatori ben al di là di una serena disamina del caso. Harvey Keitel (Arnold) e Stellan Skarsgard (Furtwangler) si fronteggiano con bravura, spietato e in crescendo emotivo il primo, rassegnato e dignitoso il secondo.Da non trascurare il contributo scenografico di Ken Adam («Il dottor Stranamore» e «Barry Lyndon», tanto per gradire). Su tutto, restano nella memoria tre particolari. Una battuta della segretaria rivolta ad Arnold: «Io sono stata interrogata dalla Gestapo. Lei sta usando gli stessi metodi». Una di Arnold rivolta a Furtwangler: «Se lei non sapeva niente, perchè ha salvato degli ebrei?». E infine un filmato d’epoca nel quale Furtwangler, al termine di un concerto, prima stringe la mano a Goebbels, poi la strofina nervosamente con un fazzoletto. Tutto questo non potrà mai essere capito veramente da chi non l’ha vissuto.
A TORTO O A RAGIONE di I. Szabò. Con H. Keitel, S. Skarsgard.