Il cavaliere oscuroIl ritorno
Non si può certo dire che, nel suo approccio a Batman, Christopher Nolan abbia aderito incondizionatamente all’ideologia e all’estetica del supereroe. Già il fatto che abbia scelto l’unico personaggio, tra DC e Marvel, completamente privo di superpoteri la dice lunga su quale fosse il suo scopo. In sostanza, Nolan ha proceduto a una sistematica destrutturazione del personaggio ben oltre quanto gli avrebbe consentito l’andamento del Batman a fumetti. E, passo dopo passo, è arrivato alla conclusione della trilogia affrontando molti rischi e mettendo in evidenza qualche limite. Il rischio maggiore, dopo la psicanalisi di «Batman Begins» e la full immersion nel male allo stato puro de «Il cavaliere oscuro», era quello della stratificazione, ovvero della necessità di andare oltre (si potrebbe dire) a qualunque costo.
Non stupisce, pertanto, che «Il cavaliere oscuro/Il ritorno» proponga una sorta di catastrofe apocalittica circoscritta al microcosmo di Gotham City ma tra le righe estendibile al mondo intero (anche se forse più specificamente all’America). Né deve stupire il fatto che ad essere protagonista del film non sia più Batman in quanto uomo pipistrello, ma piuttosto Bruce Wayne in quanto uomo.
Il percorso di Nolan, disseminato di trappole che in alcuni casi evita e cui in altri abbocca, dovrebbe portare alla conclusione che in un mondo nel quale si rischia veramente di regredire a uno stato primitivo di violenza e caos cui il popolo civilizzato potrebbe opporsi soltanto usando le stesse armi, più di un supereroe forse stanco e demotivato ci sia bisogno che sia l’uomo a ritrovare se stesso, le proprie motivazioni e i propri ideali. Come dire che sarebbe troppo facile attendersi miracoli da un personaggio dei fumetti quando è invece urgente la necessità che siamo noi a rialzare la testa.
Certo, lo scontro finale tra forze dell’ordine e l’esercito di reietti guidato da Bane può essere risolto in due modi, possibilmente in sintonia: da una parte l’estremo atto di coraggio di un eroe che ha fatto della solitudine e dell’individualismo il proprio modo di vita, dall’altra l’unione compatta delle forze di polizia (in quanto ordine costituito) contro la violenza cieca e distruttrice.
In entrambi i casi, si insinua il sospetto di una sottile ambiguità di fondo: se da una parte si procede all’ennesima beatificazione del singolo, dall’altra si ipotizza che un’umanità ferita e smarrita possa riunirsi e combattere solo in presenza di un’uniforme ben conosciuta e teoricamente rassicurante. Più o meno quel che accadeva ne «L’uomo del giorno dopo» di Kevin Costner, dove dopo la catastrofe atomica era la semplice uniforme di un postino a restituire ai superstiti il senso di unione e identità nazionale. Ma accadeva nel 1997. Oggi, a undici anni di distanza dall’11 settembre 2001, il postino non basta più: c’è bisogno dell’uniforme della polizia. Anche perché le istituzioni alte, tipo il Presidente degli Stati Uniti, si limitano ad apparire in televisione rassicurando tutti sul fatto che, nonostante tutto, si auspica una rapida soluzione del problema.
Certo, i ripensamenti di Catwoman (una notevole Anne Hathaway) non sono del tutto credibili. Il ruolo di Miranda Tate (Marion Cotillard) invoca la sorpresa ad ogni costo grazie alla centralità del personaggio di Bane (Tom Hardy). L’identificazione di John Blake (Joseph Gordon-Levitt) con il futuro Robin lascia la porta aperta ad eventuali seguiti dei quali Nolan assicura che non si occuperà più. Eppure, mentre continuiamo a chiederci se Nolan sia un analista sociale e politico o un astuto intellettuale con la vocazione alla provocazione (cose, entrambe, battute dalle dimensioni del suo ego), non si può fare a meno di apprezzare la tenuta drammatica, l’eccellenza visiva di alcuni passaggi come la distruzione dello stadio durante il Super Bowl o l’inseguimento in città tra Batman e la polizia e, a parte ogni altra considerazione, la volontà di andare oltre il dato avventuroso per proporre una riflessione che, comunque la si metta, riguarda il nostro presente. Le vittime nel cinema di Denver in cui si proiettava la prima del film ne sono la più triste conferma.