Il caso spotlight
L’inchiesta del Boston Globe che tra il 2001 e il 2002 rese pubblico lo scandalo dei preti pedofili nella città del Massachusetts evidenziando le pesanti responsabilità del cardinale Law e portando successivamente alla scoperta di molti altri casi in altre località, è storia. Una storia che francamente non avremmo voluto attraversare ma che è servita a ribadire, una volta di più, quanto la vocazione religiosa possa essere un terreno minato e soprattutto quanto la Chiesa, fondata da Gesù Cristo in persona, sia comunque emanazione divina con gestione umana. È evidente che ciò non corrisponda né a un’attenuante né a una rassegnazione. Ed è evidente che, affidando a Pietro che lo aveva rinnegato tre volte il ruolo di primo Papa, Gesù sapeva benissimo in che mani si stava mettendo e accettava integralmente il rischio ammonendo severamente (Mt 18, 6-7): «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare».
Il caso Spotlight di Tom McCarthy, in un certo senso seguendo le orme di «Tutti gli uomini del Presidente», cerca di ricostruire con lucidità, sintesi, verità e onestà una vicenda che si sarebbe prestata facilmente a speculazioni, a gossip, a compiacimenti e a desiderio di scandalo. Possiamo dire che tutto sommato raggiunge l’obiettivo prefissato e che, pur con qualche omissione che avrebbe richiesto maggior chiarezza, finisce per essere un thriller morale nel quale la Chiesa non è un bersaglio mobile e neanche i giornalisti appaiono come giustizieri alati. Ognuno ha le proprie problematiche e ognuno dovrà render conto di qualcosa.
L’inchiesta è fortemente voluta dal nuovo direttore, Marty Baron, che l’affida a Spotlight, un team di giornalisti investigativi guidati da Robby Robinson. Percorrendo le vie più strette e accidentate, gli indagatori arrivano alle vittime, agli avvocati che le difesero, a quelli che fecero accordi con la diocesi per non rendere il fatto pubblico e, naturalmente, al cardinale Law che si adoperò per non intaccare la fede di molti ottenendo l’effetto esattamente contrario. E alla fine qualcuno dovrà prendere atto del fatto che, se qualche anno prima avesse preso in giusta considerazione materiali e liste di nomi già acquisiti, il danno avrebbe potuto essere notevolmente ridotto.
McCarthy, che abbiamo già apprezzato per il pregevole «L’ospite inatteso», è consapevole di camminare su un campo minato. Ma sa anche che gli atti dei processi sono ormai pubblici e che dal Vaticano sono arrivati più volte precisi segnali di condanna e intervento. Di conseguenza, non rischia quasi niente. Neppure a livello cinematografico, adottando il format del thriller (quindi uno schema molto tradizionale) che gli permette di costruire una storia a suspense della quale già conosciamo la conclusione. Pur prendendo atto di una sostanziale obiettività nei toni adottati, gli si può rimproverare un peccato d’omissione quando, prima dei titoli di coda, informa che il cardinale Law, dimessosi dall’incarico nel 2002, fu trasferito a Roma come arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore. Manca, però, l’informazione che da tale incarico fu rimosso nel 2011.
In sostanza, Il caso Spotlight è un film che, senza speculare sui fatti narrati, cerca di esporre eventi noti a tutti nella maniera più lineare possibile. È anche vero che, data l’entità dello scandalo, gli sarebbe stato praticamente impossibile andare oltre. Molto del merito della riuscita del film va assegnato agli attori: Michael Keaton (Robinson) pienamente maturo ed equilibrato, Mark Ruffalo entusiasta e polemico, Rachel McAdams padrona dei mezzitoni, Liev Schreiber (Baron) straordinariamente misurato e Stanley Tucci alle prese con uno dei suoi personaggi (come in «Margin Call») idealisti contro l’evidenza. Diciamo che Il caso Spotlight ci aiuta a ricordarci che nessuno è perfetto e che qualcuno se ne approfitta.