IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA

DI FRANCESCO MININNIByambasuren Davaa è la regista mongola che, insieme a Luigi Falorni, ha realizzato quel gioiello di «cinema dal vivo» che è «La storia del cammello che piange». Ora, da sola, dirige ancora una famiglia mongola, i Batchuluun, per ribadire l’importanza di mantenere vivo il rapporto tra uomo e natura, perché non se ne vada via una componente fondamentale (in quanto insostituibile) della nostra esistenza. E ancora, per ribadire l’importanza dell’amore, della solidarietà, del prendersi cura dei più piccoli, di quanto possano dare in affetto e fedeltà piccole creature che potremmo essere portati a trascurare o a respingere.

Tutto bene, tutto giusto, tutto da sottoscrivere. «Il cane giallo della Mongolia», però, non è «La storia del cammello che piange». Adesso cercheremo di capire il perché.

La famiglia Batchuluun (padre, madre, due figlie e un figlio) sta per smobilitare dalla zona estiva per trasferirsi nuovamente in quella invernale, con la casa/tenda smontabile, il gregge, i buoi. Nei campi senza fine della Mongolia, però, è molto concreto il pericolo dei lupi. Così, quando la piccola Nansal porta a casa un cane trovato in una grotta, suo padre deve convincerla a riportarlo indietro perché, essendo selvatico, potrebbe aver dimestichezza con i lupi e attirarli verso il gregge. Sarà necessario un atto di coraggio del cucciolo, che salverà il piccolo dagli avvoltoi, per far sì che l’uomo cambi idea e la famiglia riparta al gran completo.

Narrato come una fiaba popolare, con ritmi molto lenti, grande attenzione agli elementi paesaggistici e poche notazioni che ribadiscono comunque quale sia lo stile di vita dell’uomo in luoghi dove la solidarietà è semplicemente all’ordine del giorno, «Il cane giallo della Mongolia» mostra il difetto di molte fiction: è prevedibile e scarsamente inventivo, il che porta i ritmi lenti a trasformarsi occasionalmente in noia. Questo non diminuisce il suo valore umano ed etico: semplicemente lo rende di minore impatto su un pubblico che potrebbe arrivare alle conclusioni troppo presto. Il fatto che «La storia del cammello che piange» fosse invece così unico ed emozionante, è dovuto al fatto che niente di ciò che accadeva era provocato o ricreato in studio: accadeva e basta. Qui, invece, Byambasuren Davaa, affacciandosi alle soglie del cinema professionale con sistemi produttivi tradizionali, ferme restando le sue caratteristiche di osservatrice e conoscitrice dell’animo umano, perde in verità. Non riesce, cioè, a farci credere che ciò che stiamo vedendo stia realmente accadendo o sia comunque accaduto. Da fedele e rigorosa cronachista di una realtà vera, si è cioè trasformata in narratrice di storie. Ci sembra che la differenza non sia cosa da poco.

IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA (Die Hohle des gelben Hundes) di Byambasuren Davaa. Con Urjindorj Batchuluun, Nansal Batchuluun. MONGOLIA/GERMANIA 2005; Drammatico; Colore