IL BAMBINO CON IL PIGIAMA A RIGHE
DI FRANCESCO MININNI
Certo, si potrebbe dire che sull’Olocausto già tutto è stato detto e che ogni ripetizione non potrà che partire da una sensazione di già visto. Si potrebbe dubitare di un nuovo film sull’argomento uscito da casa Disney. Si potrebbe invocare, se non il silenzio della memoria che sarebbe imperdonabile, almeno quello dell’arte. E poi ci si trova tra le mani (o meglio davanti agli occhi) un film come «Il bambino con il pigiama a righe» diretto da Mark Herman. E allora si pensa che, con tutti i difetti possibili, è giusto che ci sia ancora spazio per qualche parola, qualche immagine, qualche dolore. Si pensa che troppe ferite non ancora richiuse abbiano diritto a una cura. Ma soprattutto si arriva alla conclusione che, Disney o non Disney, il film di Herman è una durissima rappresentazione di una verità ancora sconvolgente: che l’Olocausto non è stato un dolore a senso unico, ma ha aperto ferite nel cuore dell’umanità intera. E che, nonostante innumerevoli storie a lieto fine, c’è ancora spazio per qualcuno che, alzando con decisione la mano, interviene nel dibattito per affermare che il dolore ha avuto via libera, ma la riconciliazione è ancora di là da venire. Lo scrittore John Boyne, irlandese, ha pensato e scritto una storia che, per quanto in forma più drammaturgica che storicamente plausibile, riesce a sorprendere lo spettatore e a rimandarlo a casa con una precisa sensazione di gelo. Non c’è lieto fine ne «Il bambino con il pigiama a righe»: quella che poteva essere una storia rivissuta con gli occhi della memoria dal protagonista ormai invecchiato, è invece il racconto oggettivo di vicende i cui protagonisti non sono più con noi per raccontarle.
Bruno ha otto anni, vive a Berlino ed è figlio di un ufficiale nazista. Quando il padre è assegnato al comando di un campo di concentramento, tutta la famiglia (una madre e una sorella più Bruno) deve trasferirsi con lui. Diversamente da quanto previsto, il lager è molto vicino alla casa dell’ufficiale e soprattutto è visibile dalla finestra della camera di Bruno. Il bambino, che non sa e non capisce, pensa che si tratti di una fattoria e che i prigionieri ebrei siano in realtà agricoltori. Anche quando, trasgredendo gli ordini, varca il cancello avvicinandosi alla rete del campo e incontrando Shmuel, un bambino dall’altra parte del filo spinato, continua a pensare che l’unica cosa strana è che questi contadini indossino sempre il pigiama. Poi, piano piano, il dubbio si insinuerà in lui. E quando Shmuel lo informerà di non trovare più il padre, lui scaverà un passaggio sotto la rete e, indossando un pigiama a righe, entrerà nel campo per aiutarlo nella ricerca.
Indubbiamente «Il bambino con il pigiama a righe» comincia, come molti film sull’Olocausto, raccontandoci cose che sappiamo molto bene ma che gli autori sembrino invece convinti di doverci insegnare. Può darsi che questo sia un limite. Ma le obiezioni sono due: da una parte ci si chiede se fosse possibile raccontare questa storia in un altro modo, dall’altra se l’andamento scolastico non equivalga invece al fatto che tutta la storia sia vista con gli occhi di Bruno, che effettivamente non sa niente. Sia come sia, il film procede lentamente verso quella che potrebbe sembrare una conclusione prevedibile. Nel qual caso, oggi non saremmo qui a parlarne. Ma l’esasperazione del dolore, ovvero le estreme conseguenze del transfert di «Mr. Klein» di Joseph Losey (quando Alain Delon si faceva deportare per un caso di omonimia), innalza il film al livello di un dramma shakespeariano nel quale le colpe dei padri ricadano sui figli. E noi rimaniamo lì a chiederci: ma quell’ufficiale nazista, alla fine, avrà capito qualcosa oltre la follia di Hitler e il senso del dovere?