Ida
La ricostruzione del suo paese in quegli anni fatta da Pawlikowski è impeccabile: fuori la povertà, le architetture popolari, i monolocali con fornello, le sale da ballo né affollate né deserte; dentro il desiderio di ricucire le ferite del passato di pari passo alla paura di farlo. In questa situazione ricca di fermenti e attraversata da esistenze un po’ incompiute e un po’ sbandate, si inserisce a meraviglia la vicenda di Anna.
Anna è una novizia sul punto di pronunciare i voti perenni. Ma ha una zia, Wanda, che vive in città e non ha mai voluto avere contatti con lei. La madre superiora informa Anna che, prima dei voti, è necessario che lei si rechi a conoscere la zia. La ragazza, che sin da bambina ha sempre vissuto nel convento, è dubbiosa, ma obbedisce. L’incontro non sarà né facile né affettuoso. Anna scoprirà di chiamarsi Ida, di essere ebrea e di aver perso i genitori durante l’occupazione nazista. Wanda, apparentemente sicura di sé, disinibita e dura, la accompagnerà in un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca del luogo di sepoltura dei familiari, morti non per mano tedesca ma di un polacco collaborazionista. E sarà Wanda, che ha lasciato un figlio piccolo per seguire i propri ideali e le proprie battaglie, a pagare il prezzo più alto. Ida/Anna, a confronto con un mondo e una vita mai conosciuti, metterà seriamente in discussione la propria vocazione. Poi prenderà una decisione.
«Ida» ha da offrire innanzitutto un lavoro tecnico non indifferente. Il bianco e nero della fotografia di Lukasz Zal e Ryszard Lenczewski passa progressivamente da una tonalità livida che corrisponde alla mancanza di colori umani a una luminosità che equivale a un ritrovato equilibrio e a una scelta consapevole. Le inquadrature, stranamente tagliate in basso, sembrano a loro volta esprimere indecisione e incompiutezza, oltre allo scopo primario di non concedere allo spettatore alcuna forma di tranquillità e accomodamento. Il materiale umano è ricchissimo.
L’importante, a nostro modo di vedere, è capire l’essenziale: che cioè la crisi interiore di Anna (che scoprendo di chiamarsi Ida fa nascere una sorta di sdoppiamento psicologico) non è affatto legata, come si potrebbe pensare, al contrasto tra l’aver sempre vissuto nella fede cattolica e la scoperta di appartenere alla razza ebraica, bensì all’improvvisa consapevolezza che, fuori delle mura del convento, esiste un mondo che lei praticamente non ha mai conosciuto e che, con tentativi più ingenui e teneri che goffi, cerca di conoscere nel giro di un giorno e una notte.