HABEMUS PAPAM
DI FRANCESCO MININNI
Vedendo «Habemus Papam» ci è tornata alla memoria quella battuta di Nanni Moretti in «Sogni d’oro» quando, prendendosela con chi sputa sentenze su argomenti non di sua competenza, sbottava: «Parlo forse di astrofisica, io?». Ecco, in «Habemus Papam» Moretti è caduto in tentazione e, forte della propria capacità di osservatore che gli ha permesso ne «Il caimano» di raccontare vent’anni di storia italiana, ha creduto di poter fare lo stesso con la Chiesa e più specificamente con il Vaticano.
Da ciò si capisce bene come Italia e Vaticano non siano la stessa cosa. Moretti si dichiara da sempre non credente e lo ribadisce a chiare lettere in questo film. Eppure è stato don Giulio ne «La messa è finita» e adesso affronta addirittura il dramma di un cardinale che, eletto Papa, non riesce a sostenere aspettative, pesi e responsabilità e fugge dal Vaticano mischiandosi alla gente comune, riavvicinandosi all’antico amore per il teatro e, in fin dei conti, rinunciando (come Celestino V) alla carica. Diciamo la verità, in questo non solo non c’è alcunché di censurabile o aprioristicamente polemico. Se fosse solo questo, «Habemus Papam» sarebbe un film di spessore, umanamente densissimo, ricco di spunti psicologici e, nella totale assenza di qualunque cosa possa evocare l’intervento divino, tale da suscitare dibattiti, opinioni, un fermento culturale che sarebbe manna nel deserto.
I primi venti minuti del film, con il conclave, l’attesa, le fumate nere, i dubbi, i ripensamenti, i cambiamenti d’opinione, la fumata bianca, il grido disperato del cardinale Melville (un grande Michel Piccoli) al momento della proclamazione al balcone, sono grandissimo cinema: un pensiero libero fondato su un’eventualità altamente plausibile. Poi, però, entra in scena Nanni Moretti, che si riserva il ruolo dello psicanalista ateo chiamato dal Vaticano a sottoporre Melville a una terapia-lampo nel tentativo di farlo recedere dai dubbi e permettere al mondo intero di interrompere un’attesa che si fa di minuto in minuto meno sostenibile. E qui il discorso cambia aspetto. «Habemus Papam» si sdoppia e diventa a tutti gli effetti due film in uno.
A uno sguardo attento non sfuggirà che il percorso dello psicanalista all’interno del Vaticano che, dopo una seduta, si sposta dal Papa a tutti i cardinali, perde i contatti con il problema iniziale e apre un nuovo scenario. Da una parte seguiamo Melville nel suo tenero girovagare per Roma, dalle sedute con la psicoanalista (che naturalmente è l’ex-moglie dello psicanalista Moretti) al soggiorno in albergo al rinnovato interesse per il teatro dopo l’incontro con una compagnia che mette in scena «Il gabbiano» di Cechov. Dall’altra restiamo in Vaticano dove Moretti, costretto a restare tra quelle mura finché tutto non sarà risolto, organizza un torneo di pallavolo tra i cardinali suddivisi per appartenenza geografica.
E che c’entra con tutto il resto? C’entra. Moretti, infatti, sembra intimamente convinto di alcune cose. Che il Vaticano sia una sorta di castello kafkiano dove chi entra non può mai essere sicuro che uscirà. Che ci siano cardinali che, invece della pallavolo, giocherebbero volentieri a palla prigioniera ignorando che sono almeno cinquant’anni che non esiste più. Che basti mettere una guardia svizzera nell’appartamento papale con la comanda di agitare le tende ogni tanto per far credere ai prelati che Melville sia lì a pregare. Che lì dentro nessuno vuole che cambi qualcosa (e in sottofondo, non a caso, Mercedes Sosa canta «Todo cambia»). Tutto questo si distacca dalla problematica dei dubbi di Melville e diventa un corpo a sé, polemico e disinformato, presuntuoso e autolesionista. Come se Nanni Moretti, capace di pagine di cinema di altissimo livello, improvvisamente avesse ceduto all’irrefrenabile desiderio di parlare di astrofisica senza saperne un granché. Il Concilio Vaticano II, la lettera di Paolo VI alle Brigate Rosse, il viaggio di Giovanni Paolo II a Cuba, la richiesta di perdono agli Ebrei da lui sollevata e ribadita da Benedetto XVI parlano di tutt’altro. Ma non saremo certo noi a impedire che chiunque dica la sua.