GRANDE GROSSO E… VERDONE

DI FRANCESCO MININNI

Ha un bel dire Carlo Verdone che c’è qualcosa di nuovo in «Grande grosso e… Verdone» rispetto ai film di quasi trent’anni fa che gli hanno dato fama e successo. Certo, «Un sacco bello» e «Bianco rosso e Verdone» mantengono un’aria di innocenza che sopravanza comunque il retrogusto malinconico. Ma «Viaggi di nozze», anno 1995, aveva già fatto piazza pulita di buonismo e sorrisi di circostanza, al punto che quest’ultimo film finisce per sembrarne soltanto un’appendice non indispensabile.

Leo, eterno imbranato, è bloccato a Roma dall’improvvisa morte della madre: dovrà sudare sette camicie per riuscire a seppellirla decorosamente.

Il professor Callisto Cagnato, storico dell’arte e fustigatore dei costumi, brutalizza il figlio Severiano cercando di organizzargli la vita secondo i propri intendimenti. Moreno ed Enza Vecchiarutti, borgatari arricchiti, vanno in vacanza a Taormina con il figlio Steven: si ritroveranno uniti dopo aver rischiato la definitiva separazione.

Questo eccesso di sintesi non deve far pensare che «Grande grosso e… Verdone» sia un film scattante e di metraggio normale. È invece lungo, sbilanciato (il terzo episodio dura quanto gli altri due messi insieme) e in buona parte ripetitivo. La morte della madre, ad esempio, rappresenta per Leo quel che l’invadenza del parentado rappresentava per Giovannino.

Il professor Cagnato, più sinistro e doppio di quanto non fosse Furio, non può che replicare la cattiveria di Raniero. E Moreno, arricchito e convinto che la vita sia tutta lì, è un omaggio, non sappiamo quanto involontario, alla commedia italiana a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. La bionda dei suoi sogni, che alla resa dei conti si rivela una prostituta d’alto bordo, è addirittura un’icona di quel genere e di quegli anni. Insomma, le novità annunciate da Verdone potrebbero limitarsi al fatto che, di pari passo con lui, i tre personaggi sono invecchiati, hanno figli e/o moglie, vivono in un mondo un po’ più cinico e cattivo, ma soprattutto non riescono a cambiare.

Stesse facce, stessi tic, stessa illusione di immortalità. E allora bisogna risalire un attimo alla genesi di questo film: praticamente richiesto a furor di popolo da tanti fan nostalgici che hanno bersagliato Verdone di e-mail quasi costringendolo a rimettere mano alle sue vecchie macchiette. E lui, probabilmente in buona fede, si è convinto di operare un cambiamento importante mentre invece cambiava soltanto il dato anagrafico. Non è riuscito, cioè, a sfuggire al pericolo di un film pensato e scritto a seguito di un’esplicita richiesta del pubblico.

La realtà è che Verdone vuole troppo bene alle sue creature per sabotarne l’intelaiatura. Persino il professor Cagnato, che dovrebbe essere una sorta di Jekyll, finisce per assomigliare al personaggio interpretato da Alberto Sordi ne «Il moralista» e, uscendo vivo dall’intrico delle catacombe, perde l’unica occasione di cambiamento vero.

Alla fine, a costo di ripeterci, vediamo una sola possibilità per Carlo Verdone di smettere di essere la grande promessa del cinema italiano: un film da regista, solo da regista, nel quale non ci siano attori che fanno il verso a lui per interpretare adeguatamente i soliti personaggi.Questo sì, sarebbe un cambiamento vero.

GRANDE GROSSO E… VERDONE di Carlo Verdone. Con Carlo Verdone, Claudia Gerini, Geppi Cucciari, Eva Riccobono. ITALIA 2008; Commedia; Colore