GRAN TORINO

DI FRANCESCO MININNI

Sinceri complimenti a Clint Eastwood. Raggiunti i 78 anni di età, l’autore dimostra con chiarezza come la vecchiaia, che per qualcuno equivale agli anni dei ricordi, per lui corrisponda invece a un proficuo, quasi sorprendente periodo di riflessione. Tanto più palese in quanto riferito ad argomenti che l’Eastwood di venti o trent’anni fa avrebbe trattato in tutt’altra maniera. «Gran Torino» potrebbe rappresentare il culmine di un meditato percorso interiore che da «Debito di sangue» a «Mystic River» a «Million Dollar Baby» ci ha restituito il vero volto di un autore che, raggiunte e saldamente mantenute fama e fortuna, può adesso permettersi di raccontare le storie e i personaggi che vuole veramente senza preoccuparsi né delle aspettative del pubblico né delle leggi di mercato. La cosa è tanto più evidente in quanto «Gran Torino» è stato presentato in un certo modo così da creare un’aspettativa come minimo fuorviante: chi si aspettava di ritrovare il vecchio Clint, sarà sorpreso nel trovarsi di fronte il Clint vecchio. E non è la stessa cosa.

Walt Kowalski, reduce dalla guerra di Corea e vedovo recente, ha sempre vissuto da individualista, orso, cinico e scorbutico. Non ha quasi dialogo con i due figli, non sopporta le attenzioni del sacerdote che ha promesso alla moglie morente di farlo confessare, ma soprattutto ha un difficile rapporto con i vicini di casa, che guarda caso sono asiatici. Il suo unico vanto è una Gran Torino, una Ford che cura amorevolmente senza guidarla mai. Quando una gang di asiatici mette piede sul suo territorio, Walt non esita ad impugnare il fucile. Contemporaneamente, in un modo tutt’altro che limpido, prende a cuore le sorti di Tao, un giovane vicino che cerca di non farsi risucchiare dal meccanismo della gang. Il giorno in cui, però, le mani dei teppisti si fanno pesanti, Walt, senza mutare minimamente il proprio stile di vita e la propria grinta, prende una decisione…

Facile, troppo facile e anche terribilmente banale immaginare che Kowalski imbracci il fucile e faccia giustizia nell’unico modo che sembra conoscere. Bello, molto più bello e spiazzante il percorso che Eastwood ha deciso di fargli compiere e che passa attraverso i semplici ideali di giustizia ed espiazione. In un film in cui non tutto è indispensabile e che soffre nella prima parte di qualche carenza di ritmo, il racconto si distende progressivamente abbracciando un’idea di interiorità e saldi principi che alla fine lasciano quasi senza fiato. Non ci è concesso rivelare la svolta finale che trasforma «Gran Torino» in una straordinaria lezione di democrazia. Vorremmo tuttavia segnalare alla vostra attenzione quella che probabilmente è la scena-chiave del film: la confessione di Kowalski prima dell’ultimo scontro. Per uno come lui, che non si confessa da anni, i peccati dei quali chiedere perdono sono soltanto tre: un bacio dato a una donna mentre la moglie si trovava nella stanza accanto, la vendita di un motore senza il pagamento delle tasse previste e la mancanza di dialogo con i figli. Al sacerdote che gli chiede «Tutto qui?», Kowalski risponde: «E le sembra poco? È tutta la vita che cerco di conviverci». Basterebbe questo a definire il personaggio: la guerra con i suoi orrori è stata solo dovere, ma la famiglia e l’onestà no, sono cose di cui sente di dover rendere conto personalmente. Così come di quello che sta per fare per se stesso e per il prossimo: con la coscienza pulita la vendetta perde di significato. Resta posto soltanto per la giustizia.

GRAN TORINO (Id.) di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Bill Gerber, Robert Lorenz, Be Wang. USA 2009; Drammatico; Colore