God’s not dead
«Tu hai pregato e creduto per tutta la tua vita. Non hai mai fatto niente di male. Ed eccoti qua. Tu sei la persona più buona che conosco. Io sono la più cattiva. Tu hai la demenza senile. La mia vita è perfetta. Spiegami questo». Così chiede Mark alla madre, ricoverata in una casa di riposo, ed evidentemente non si aspetta alcuna risposta. Lei, invece, si scuote per un attimo e parla: «Talvolta il diavolo permette alla gente di vivere una vita libera da problemi perché non vuole che si rivolgano a Dio. Il loro peccato è come la cella di una prigione. Salvo che tutto è bello e confortevole e che non sembrano essere ragioni per lasciarlo. La porta è spalancata. Finché un giorno il tempo scade e la porta si chiude di schianto, E improvvisamente è troppo tardi».
È di gran lunga il momento più intenso di God’s not Dead, un film indipendente americano di Harold Cronk che è costato due milioni di dollari e ne ha incassati più di sessanta e che, sulla base di un libro di Rice Brooks, ha la pretesa di raccontare l’importanza della fede e più ancora quanto la fede possa sopravanzare ogni teoria, ogni ragionamento, ogni avversario. Per fare questo, gli autori compongono un collage di vicende: una blogger che scopre di avere il cancro, una ragazza islamica cacciata da casa per essersi convertita al cristianesimo, uno studente cinese che sfida il divieto paterno di parlare di fede.
La linea portante dovrebbe essere rappresentata dal serrato confronto dialettico tra l’ateo Jeffrey Radisson, professore di filosofia, e il credente Josh Wheaton, studente che rifiuta il pressante invito del professore a scrivere e firmare «Dio è morto» e accetta la sfida a dimostrare l’esistenza di Dio in tre interventi di venti minuti davanti alla classe. Il problema di God’s not Dead è che scrive la conclusione prima del dibattito e che costruisce tutto il resto con uno schematismo e una generalistica visione del male che davvero non giovano a una sensata disamina di un problema reale. Anzi, ne esce una visione terribilmente manichea dove chi crede è illuminato dall’alto e chi non crede è sprofondato in una sorta di calderone fumante senza possibilità di replica.
Alla fine, il merito maggiore del film è quello di farci capire con precisione, anche se in maniera completamente acritica e quindi senza intento di suscitare un dibattito, certe posizioni statunitensi sui princìpi, sulle fondamenta della fede, sulla maniera di porsi di fronte agli altri (cinesi, islamici: dove sono i neri e gli ispanici?) e su quel credere in Dio che si manifesta nei tendoni delle fiere dove un sedicente predicatore urla: «Chi ci salva?» e tutti rispondono a voce ancora più alta: «Gesù ci salva!». Segue la musica. E in God’s not Dead c’è anche quella. Una volta che le questioni si sono appianate, tutti convergono verso il luogo del concerto dei Newsboys, che sono una pop rock band cristiana nata nel 1985 in Australia. Tutti cantano, tutti pregano, tutti si commuovono e, su indicazione del cantante, inviano un sms a parenti e amici affermando lapidariamente che Dio non è morto (già, God’s not Dead).
Intanto Josh è stato lasciato dalla fidanzata che temeva che le sue posizioni oltranziste ne compromettessero la carriera scolastica e ha sonoramente sconfitto il professor Radisson mettendolo di fronte alle contraddizioni del suo ateismo. Perché tutto avesse un senso più preciso, Radisson è stato investito da un’auto e si è convertito in punto di morte. Non è un caso se il professor Radisson è interpretato da Kevin Sorbo, più noto per essere stato Hercules in una serie di film televisivi: un professore di filosofia come si deve non solo non avrebbe sfidato lo studente, ma nel caso se lo sarebbe tranquillamente mangiato a colazione. La fede è un moto interiore, non un ring sul quale ogni colpo è consentito. Non ci resta che attendere il sequel, sempre diretto da Cronk e pronto in America per aprile. Non vediamo l’ora.