GLI AMORI DI ASTREA E CÉLADON
DI FRANCESCO MININNI
Pensare che un regista ottantasettenne (che a dire la verità ha quasi sempre raccontato storie di giovani) scelga nell’anno 2007 un poema dei primi del XVII secolo, «L’Astrée» di Honoré d’Urfé (intorno a 5.000 pagine di versi barocchi), per raccontare le pene d’amore di due giovani che oggi non perderebbero troppo tempo e andrebbero subito al sodo in attesa di cambiare partner, può indurre a una errata valutazione di anacronismo. Eric Rohmer, invece, con «Gli amori di Astrea e Céladon», ha compiuto un’operazione filologica molto importante rispondendo con stile a quanti pensano che il passato sia una zavorra fastidiosa. Certo, l’età non consente più l’equilibrio assoluto di una volta: il film è obiettivamente lungo e lentissimo e gli attori non sono tutti adeguati. Ma a un occhio e a un orecchio attento sembrerà realmente di trovarsi in un’altra epoca che, sia pur fiabesca e bucolica al di là della realtà, potrà dare qualche interessante informazione sul bel canto, sui rapporti tra i sessi in un altrove che è comunque esistito, su alcuni imperituri meccanismi della commedia amorosa (il travestimento, il riconoscimento o agnizione, il rincorrersi di due cuori in foreste fatte apposta per i nascondigli, le promesse che una volta contavano qualcosa) e su come sia essenziale salvaguardare un patrimonio culturale che, si sorrida o meno, appartiene comunque a tutta l’umanità.
L’intreccio prevede l’amore campestre tra la bella Astrea e il pastore Céladon. Credendosi tradita, lei gli ordina di non farsi più vedere se non sarà lei stessa a cercarlo. Quando Céladon è creduto morto annegato, la fanciulla sprofonda nella disperazione soprattutto nel rendersi conto che i suoi sospetti erano infondati. Dal canto suo Céladon, pur avendone l’opportunità, non trasgredirà mai l’ordine dell’amata. Sarà necessaria la saggezza di un druido che, convincendo il giovane a travestirsi da donna, farà sì che i due si ritrovino e, superate le reciproche diffidenze, possano finalmente amarsi come amore impone.
Non c’è dubbio: Rohmer, che aveva già frequentato i poemi cavallereschi e d’amore con «Perceval le Galois», è riuscito a ricostruire un’epoca che vuol dire soprattutto uno stile rigorosamente poetico. Le sue pastorelle dalle vesti rigorosamente trasparenti, i sospiri d’amore sulle rive di un fiume, la foresta tanto simile a quella del «Sogno di una notte di mezza estate», i canti rivolti al cielo e alle stelle sono tutti tasselli di un minuzioso lavoro di ricostruzione colta e anche appassionata. È persino commovente vedere l’anziano maestro orchestrare con grazia e leggiadria i diversi movimenti dei giovani sulla scena, di modo che niente travisi lo spirito originale o valichi i confini di un’epoca. Niente, tranne l’inadeguatezza del protagonista Andy Gilet che fatica a calarsi in un tempo che non è il suo con una gamma di espressioni che sarebbe limitata anche in vesti contemporanee. È una mancanza che perdoniamo volentieri: con la sua scelta dettata al tempo stesso dalla saggezza e dalla possibilità di lavorare secondo ispirazione, Rohmer ci ricorda che il passato non è un oggetto da rinchiudere in un museo, ma un patrimonio da divulgare prima che l’oblio lo renda sterile e inutile.
GLI AMORI DI ASTREA E CÉLADON (Les amours d’Astrée et Cèladon) di Eric Rohmer. Con Andy Gilet, Stéphanie de Crayencour, Cécile Cassel, Jocelyn Quivrin. F/I/E 2007; Sentimentale; Colore