«GIARDINI IN AUTUNNO»

DI FRANCESCO MININNIArrivato al settantaduesimo anno di età, il georgiano Otar Iosseliani, ormai stabilmente al lavoro in Francia, non finisce di stupirci. Per la capacità (sempre più rara, in un cinema di parole) di saper dar voce alle immagini. Per la grazia da poeta con la quale si muove in un mondo di pazzi alla disperata ricerca di un angolo di libertà. Per ricordarci ad ogni piè sospinto che maestri come Chaplin e Tati non andrebbero mai dimenticati. Per riuscire, sempre, a coinvolgerci nel suo mondo alla rovescia, pur chiarendo in anticipo che dovremo essere noi, non lui, a trovare il bandolo della matassa. Per essere un grande che né sa né pretende di esserlo. «Giardini in autunno» parla… Già, di cosa parla? Di politica, certamente. Di esistenzialismo, non c’è dubbio. Di anime alla deriva, appare chiaro. Di moda e morte, quasi a ricordare la celebre operetta morale di Giacomo Leopardi. Anzi, forse più di morte che di moda, dal momento che proprio in apertura del film Iosseliani inserisce una scena apparentemente slegata dal resto nella quale, all’interno di un laboratorio di falegnameria, tre acquirenti litigano sul possesso di una bara. Poi, però, cambia lo scenario ed entra in scena un ministro in disgrazia, costretto a dimettersi, lasciato dalla moglie e con urgente bisogno di un alloggio. Ci pensa sua madre, che gli dà le chiavi del vecchio appartamento. Ma la casa è stata occupata dagli extracomunitari e Vincent deve accontentarsi di una stanza segreta cui si accede da un passaggio nella libreria.Credeteci, è inutile continuare a raccontare una storia che, alla fin fine, non c’è. Iosseliani immagina e dà corpo alla propria immaginazione riproponendo un tema a lui molto caro già presente in «Addio terraferma» e «Lunedì mattina»: ci vogliono umiltà vera e un po’ di sana follia per recuperare la propria dimensione umana in un mondo costantemente avviato verso l’autodistruzione. In questo senso «Giardini in autunno» ribadisce con forza l’appartenenza dell’autore a quella ristretta schiera di poeti (primo fra tutti Jacques Tati) capaci di vedere più lontano e, senza essere ascoltati, di lanciare messaggi di aiuto in forma di commedia surreale. Perché Iosseliani, grande indagatore del presente, surreale lo è molto, al punto da spiazzare quanti pensassero di aver finalmente afferrato il senso delle cose. Basti pensare al quadro con la mucca bianca e a quello con la mucca nera, identici salvo per il colore dell’animale: il primo è in casa di una donna caucasica, il secondo in casa di una donna di colore. Guai a cercare una spiegazione per questa ed altre cose che potremmo superficialmente definire strampalate. Chi si perdesse dietro ai dettagli, rischierebbe di perdere il treno. Che, secondo Iosseliani, procede a velocità costante verso una destinazione precisa. Il non sapere quale sia, rende fondamentale il modo in cui ci si arriva.

Forse Iosseliani è una specie di anarchico che ama il passato, i suoi sapori, i suoi ritmi, i suoi insegnamenti frettolosamente dimenticati. Di certo è un poeta che non vuol stancarsi di dare una chance all’immaginazione in quanto libertà. E a noi piace enormemente, di quando in quando, salire sul suo treno e, come di fronte a una lanterna magica, lasciarci cullare dalle sue immagini parlanti.

GIARDINI IN AUTUNNO (Jardins en Automne) di Otar Iosseliani. Con Séverin Blanchet, Michel Piccoli, Muriel Motte, Pascal Vincent. FRANCIA/ITALIA/RUSSIA 2006; Commedia; Colore