GARAGE

DI FRANCESCO MININNI

Ci vogliono le porte dell’estate e una distribuzione rigorosamente alternativa per avere accesso a un film irlandese che, pur vincitore del Festival di Torino gestione Nanni Moretti, evidentemente non interessava i multiplex e qualche televisione. E invece «Garage» di Leonard Abrahamson, ideato e sceneggiato da Mark O’Halloran, ha bisogno di poco: sostanzialmente un pubblico attento a finezze psicologiche e sfumature ambientali, dopodiché non potrà che trovare la strada del cuore. Intendiamoci: ne uscirete con una sensazione di tristezza profonda, ma anche con la consapevolezza di aver visto un film che, nella sua povertà di mezzi, ha da mettere in campo espressività e significati. Che, oggi come oggi, non sono elementi all’ordine del giorno.

Josie, irlandese, è lo scemo del villaggio. Lavora a una stazione di servizio, vive da solo, non ha alcuna prospettiva di amore o amicizia, può tutt’al più ispirare in chi non parta con l’obiettivo di burlarsi di lui un sentimento di pietà o tenerezza. Josie, insomma, è destinato alla stazione di servizio e alla solitudine. Un giorno il proprietario, Gallagher, gli affianca un ragazzino quindicenne, David, che lo aiuterà nel lavoro. E Josie, dopo avergli insegnato il mestiere, socializza nell’unico modo che conosce: dividendo qualche lattina di birra dopo l’orario di lavoro. Quando però mostra al ragazzo poche inquadrature di una videocassetta porno regalatagli da un camionista, la cosa si viene a sapere. E chi fino a quel momento tollerava Josie, si trasforma in boia. Il poveraccio, che dice sempre «Senz’altro», «Va bene», «Non c’è problema», sente improvvisamente crollarsi addosso quel piccolo mondo che per lui era tutto. E non riuscirà ad accettarlo.

Abrahamson sa gestire una materia così delicata con uno stile semplice, lineare, fatto di inquadrature lunghe e di tempi lenti. Ma quel che inizialmente sembra minimalismo quasi sorridente si trasforma progressivamente nella cronaca di una tragedia quotidiana. Josie è evidentemente un innocente, un puro che viene a contatto con le brutture del mondo grazie alla cattiveria del prossimo. L’interpretazione che ne dà Pat Shortt è davvero straordinaria, al punto da far pensare a chi guarda che Josie non sia un attore, ma Josie stesso. E il dato più saliente che emerge dal film non è il ritratto dello scemo del villaggio, ma del villaggio che ha bisogno di uno scemo per alimentare il proprio cinismo, la propria ipocrisia, la propria cattiveria.

Da qui, naturalmente, potrebbe partire la solita difesa della diversità ovverosia delle minoranze oppresse. È un discorso che, per fortuna, né Abrahamson né O’Halloran generalizzano per trasformarsi da analisti in cavalieri erranti. Preferiscono circoscriverlo a quel luogo, a quelle persone, a quegli avvenimenti per trarne tutta la forza e l’impatto possibili. E così ottengono un risultato davvero rilevante. Realistico, senza forzature, diretto nella sua requisitoria contro incomprensione e malvagità a diversi livelli, commovente nel suo astenersi da qualunque sottolineatura drammatica o sentimentale. Così, alla fine, l’immagine che resta veramente più impressa è quella che chiude il film: la corsa solitaria di un cavallo, forse l’unico amico di Josie che lo nutriva di mele e carote, alla ricerca dell’amico perduto. Come a dire che, non essendoci niente da aspettarsi dagli uomini, è già qualcosa aver lasciato un buon ricordo a un animale. La tristezza avanza e il cinema ringrazia.

GARAGE (Id.) di Leonard Abrahamson. Con Pat Shortt, Anne-Marie Duff, Conor Ryan, Tommy Fitzgerald.IRLANDA 2007; Drammatico; Colore