FROST/NIXON IL DUELLO
DI FRANCESCO MININNI
Se pensavate che la famosa ammissione pubblica di colpa (l’unica) fatta da Richard Nixon dopo il Watergate e le dimissioni da Presidente durante la lunga intervista televisiva rilasciata al giornalista inglese David Frost nell’estate del 1977 discendesse da spinte ideali, principi etici o ansia di giustizia, «Frost/Nixon il duello» di Ron Howard provvederà a correggere ogni eventuale ansia idealista. Ispirato all’omonimo dramma teatrale di Peter Morgan (che ha anche sceneggiato il film), il lavoro di Howard è in questo senso spietato nell’affermare a chiare lettere che tutto, proprio tutto, è stato fatto per l’audience. Diversamente da Oliver Stone, che con «W.» ha rischiato molto soprattutto per la freschezza dell’argomento, Howard non rischia niente e, essendo passati trent’anni dagli avvenimenti, ha la possibilità di riflettere pacatamente e di esaminare il tutto con il necessario distacco, favorito anche dal fatto che gli eventi narrati sono ormai alla luce del sole e non prevedono rivelazioni sconvolgenti. Mantenendo intatta l’impostazione teatrale, quindi puntando tutto più sulla tensione dialettica che sulla necessità di una messa in scena complessa, Howard (che di solito è bravo in funzione della qualità della sceneggiatura che si trova a filmare) aveva una sola possibilità di fallire, affidandosi cioè agli attori sbagliati. Ciò non è accaduto: Frank Langella è un Nixon straordinario in ogni sfumatura, al punto da far impallidire il ricordo di Anthony Hopkins, non al suo meglio ne «Gli inganni del potere» di Oliver Stone; Michael Sheen (Tony Blair in «The Queen») è un Frost impeccabile, agevolato dal fatto di essere più l’antagonista che il coprotagonista; Kevin Bacon, Sam Rockwell e Oliver Platt sono caratteristi a tutta prova. Accade così che «Frost/Nixon» finisca per essere più un film d’attori che di regia. E, dati l’argomento e la struttura del racconto, non poteva essere diversamente.
Howard e lo sceneggiatore Morgan sono molto bravi ad evidenziare il punto focale della questione, cioè che né Frost, né il produttore, né i collaboratori furono spinti da principi morali. Frost, più un conduttore di talk-show che un giornalista come potevano essere Woodward e Bernstein, era spinto dalle ragioni dello spettacolo e dalla prospettiva di un avanzamento professionale e di guadagni moltiplicati. Il produttore, come tutti gli esponenti della categoria, pensava al modo migliore per vendere il programma e non rimetterci di tasca propria. Persino il collaboratore apparentemente idealista finiva per rivelare un’ansia di vendetta più che di giustizia. Ciò non porta a riservare a Nixon il ruolo di vittima sacrificale, ma comunque a identificarlo come un uomo cui chiunque fa il possibile per tendere una trappola. E lui, oratore finissimo e in un certo senso leader carismatico e affascinante, sembra obiettivamente convinto di poter avere la meglio, almeno finchè non si trova a dover fronteggiare un jolly imprevedibile. Da cui la celebre affermazione «Se una cosa la fa il Presidente, non può essere contro la legge» che di fatto sancì la sua sconfitta agli occhi del mondo.
Riproponendo un cinema di taglio classico ed essenziale, Howard ha il merito di aver puntato al nocciolo della questione senza perdersi in fronzoli. Per quanto «Frost/Nixon» risenta dell’impostazione teatrale e di un ritmo non sempre incalzante, ha il pregio della chiarezza. Alla fine, la conclusione è sempre la stessa: lo spettacolo deve continuare. Tant’è vero che oggi, all’età di 77 anni, David Frost lavora per la redazione inglese di Al Jazeera.