Frantz
Non è un caso se, per la sua prima incursione nel passato (anno 1919, subito dopo la fine della grande guerra), ha scelto un testo del 1925 di Maurice Rostand, «L’homme que j’ai tué», già tradotto in film nel 1932 da Ernst Lubitsch come «L’uomo che ho ucciso», uno dei pochissimi drammi nella carriera di un maestro della commedia. Né è un caso se al testo ha apportato qualche modifica per renderlo più in sintonia con la propria sensibilità e i propri intenti. Che sono, diremmo quasi stranamente, la ostinata ricerca di una situazione di serenità in un contesto di menzogna, rimorso, ambiguità.
Frantz è un giovane tedesco ucciso al fronte. I suoi genitori e la fidanzata Anna vivono nel suo ricordo condividendo con tutta la cittadinanza (e probabilmente con tutta la Germania) un sentimento di rancore nei confronti della Francia. Per Anna è pertanto una sorpresa (se non uno shock) trovare sulla tomba di Frantz dei fiori deposti da Adrien, un francese riservato e triste. Nonostante l’opposizione del vecchio Hoffmeister, Anna lo avvicina e lo porta in casa. Adrien rivelerà di essere un caro amico di Frantz e di aver vissuto con lui giorni bellissimi a Parigi prima della guerra. Così gli Hoffmeister lo accetteranno come fosse un figlio. Ma Anna, attenta e osservatrice, lo indurrà a dire la verità: Adrien ha conosciuto Frantz in trincea il giorno che l’ha ucciso. Il suo viaggio in Germania è finalizzato a una disperata ricerca di perdono. Quando tornerà in Francia senza che gli Hoffmeister siano stati messi a conoscenza di tutto, sarà Anna ad andarlo a cercare nel suo castello.
Cominciamo col dire che la scelta di Ozon di girare il film alternando bianco e nero e colore non è assolutamente un vezzo d’autore. Il bianco e nero rappresenta un presente segnato da tristezza, dolore, menzogna. Il colore è invece il momento della serenità, sia essa dovuta a episodi reali o derivante da racconti inventati. È questa, in fondo, la differenza maggiore dall’originale di Lubitsch: là Paul accettava di essere accolto dagli Holderlin quasi prendendo il posto di Walter e continuando a tacere la verità a tutti salvo a Elsa. Qui, invece, riparte e induce Anna a prendere l’iniziativa di andarlo a cercare. Quando troverà un debole, pavido e rassegnato a vivere la vita scelta da sua madre, Anna sceglierà liberamente di vivere la propria vita abbandonando pericolose sovrapposizioni d’identità.
Finché viaggia sui binari del melodramma esistenziale mantenendo un alone di mistero che nessuna verità potrebbe mai diradare, «Frantz» è indubbiamente un film di classe. Se Pierre Niney è un Adrien dall’aspetto fin troppo sofferente che induce a pensare a qualche problematica omosessuale (ovviamente smentita dai fatti), Paula Beer, premiata a Venezia come migliore attrice protagonista, è una Anna precisa in ogni sfumatura dalla sorpresa alla decisione alla ferma volontà. Quando però l’azione si sposta dalla Germania alla Francia, i tempi narrativi si allungano e qualche spiegazione di troppo fa rimpiangere le verità sospese della parte tedesca.
Di sicuro Ozon ha fatto il possibile per non assomigliare a se stesso e per cercare qualche registro espressivo diverso da quelli cui ci aveva abituati. Di particolare suggestione le scene ambientate nel Louvre dove la ricerca di un quadro particolare e le note musicali di Philippe Rombi evocano le indimenticabili atmosfere de «La donna che visse due volte» di Alfred Hitchcock. È probabile che la propensione di Ozon per l’ambiguità a tutti i costi sia alla radice dei problemi di un film che comunque vale.