Forza maggiore
Poi, però, subentra un ragionamento: in effetti «Forza maggiore» è composto di molti elementi riconducibili alle fonti più disparate, dal simbolismo surreale di Buñuel al martellamento esistenziale di Haneke al grottesco apparentemente bonario di tante commedie francesi. Pertanto la componente danese è rilevante e importante, ma non esclusiva. E soprattutto non bisogna pensare, come da qualcuno è stato suggerito, di essere di fronte a una novità assoluta rivelatrice di un genio. Non è così.
I coniugi Tomas ed Ebba, con i figli Vera e Harry, si godono una settimana di vacanza sulle Alpi francesi. E’ uno dei rari momenti di unione familiare che in condizioni normali è resa impraticabile dal lavoro e dagli imprevisti. In montagna il lavoro non c’è, ma di imprevisti ne basta uno: una valanga, forse organizzata dagli albergatori a scopo spettacolare e quindi controllata, forse sfuggita al controllo, si dirige minacciosa verso la terrazza dell’albergo sulla quale la famiglia sta pranzando. D’istinto, Tomas scappa lasciando Ebba e i figli sul posto. Poi, quando il pericolo si rivela infondato, torna sorridendo. Ma tra marito e moglie la cosa ha lasciato un piccolo solco che, ogni volta che si torna sull’argomento da soli o in compagnia, si ingrandisce sempre di più. Così il relax della vacanza diventa un miraggio e la convivenza un continuo attacco reciproco. E non è detto che la decisione di tornare a casa metta tutto a posto.
È evidente l’intento di Östlund di radiografare un rapporto apparentemente perfetto per mostrarne tutte le parti deboli che potrebbero essere evidenziate anche da un evento meno traumatico della valanga. Il suo lavoro, tuttavia, si basa su uno studio che ha rilevato come spesso le coppie sopravvissute a qualche evento naturale abbiano posto fine alla vita comune. Sulla base di questo, Östlund lavora di fino sugli ambienti (asettici, freddi, più simili a un dormitorio che a un albergo pentastellato), sui dialoghi, che dovrebbero oscillare pericolosamente tra l’aggressivo e l’umoristico anche involontario, e su una narrazione che, nel suo essere molto lenta e talvolta ripetitiva, dovrebbe dare la sensazione di ineluttabilità.
Tomas e Ebba, insomma, sarebbero come quelle cavie che all’interno di un labirinto cercano la strada per il cibo e trovano soltanto la ruota nella quale girare all’infinito. L’intenzione è buonissima, ma il risultato finale soffre un po’ di una mano non ferma nella gestione degli elementi surreali. Ad esempio, l’inserviente dell’albergo che si trova sul posto ogni volta che i coniugi discutono sembra più una trovata umoristica che un tassello dell’incubo. E non bisogna trascurare il fatto che Tomas e Ebba (ma anche i figli Vera e Harry) sono presentati da subito come poco simpatici, in un certo senso predestinati, del tutto incapaci di suscitare qualunque empatia che aumenterebbe il coinvolgimento del pubblico e, esponenzialmente, la sua sofferenza.
Così com’è, invece, «Forza maggiore» finisce per essere più un film irritante che capace di far riflettere, come se Östlund a un certo punto non fosse stato in grado di gestire il meccanismo limitandosi ad accumulare qualche evento e molte nevrosi. Ne è prova un finale che vorrebbe raggiungere le vette del paradosso e invece dimostra soltanto che un finale normale, con un semplice ritorno a casa, avrebbe probabilmente funzionato di più. Resta il gran lavoro fotografico, un uso interessante (per contrappunto) di un unico tema dall’«Estate» di Vivaldi e la recitazione dei protagonisti Johannes Kuhnke e Lisa Loveri Kongsli, deliberatamente e ostinatamente ripetitiva rispetto a quella di qualche comprimario. E certo, la consapevolezza che tante nostre certezze siano dovute più alla stabilità delle condizioni esterne che a un’interiore convinzione e rigore morale: anche a saperlo già, dà sempre da pensare.