Fortunata

Il merito di Sergio Castellitto è la coerenza. Da regista, ha sempre dimostrato di voler raccontare storie di gente comune con particolare propensione per personaggi popolari, di quelli che lottano per vivere e per affermare la propria dignità. Il suo difetto va di pari passo: mostra infatti la tendenza, in questa ricerca di minimalismo, ad amplificare i toni e a trasformare storie comuni in eclatanti escalation drammatiche. E vorremmo ribadire un pensiero già espresso in passato: non sapremmo dire se ciò sia dovuto alla sensibilità di Castellitto o a quella di Margaret Mazzantini, sua moglie e stretta collaboratrice sia nel caso di film tratti da suoi libri («Non ti muovere», «Venuto al mondo», «Nessuno si salva da solo») sia nel caso di storie scritte direttamente per lo schermo («La bellezza del somaro»).

Il problema si ripresenta con Fortunata, presentato fuori concorso a Cannes e non ispirato a un libro. C’è gente comune, anche di borgata, con un carico di problemi non indifferente, con complicazioni dovute ai rapporti interpersonali, con un passato che è inutile cercare di dimenticare e con le poche prospettive offerte dall’Italia di oggi. E c’è uno stile di racconto che tende più all’urlo che al sussurro, in un modo che talvolta trasforma gli snodi drammatici in rielaborazioni di materiale già esistente. Francamente ci sembra che l’attrito tra intenzioni e messa in scena sia un ostacolo difficile da superare.

Fortunata ha una figlia di otto anni, Barbara, e una causa di divorzio da Franco in corso. Sogna di aprire un proprio salone di parrucchiera insieme all’amico Chicano, tossicodipendente che fa tatuaggi, senza riuscire però a ottenere il prestito dalla banca. Si riduce, quindi, a chiedere soldi a un’usuraia cinese. Contemporaneamente deve affrontare i problemi di Barbara, che reagisce male a tutto (sputando, per esempio) e passa da momenti di tenerezza a un sordo rancore. Si presta pertanto a una terapia familiare con il dottor Patrizio che capisce i problemi ma non può fare a meno di innamorarsi di lei. Quando tutto diventa più difficile, solo un evento traumatico potrà rimettere un po’ d’ordine.

Bisogna dire che la maniera che ha Castellitto di affrontare le sue storie ha indubbiamente una forza e una passione che fuoriescono dalla macchina da presa e avvolgono i personaggi nell’intento di trasformare i loro drammi quotidiani (talvolta anche banali) in qualcosa di unico. Ciò porterebbe a pensare che i problemi dei suoi film, soprattutto del bilanciamento mancato tra progetto e prodotto finito, siano da imputare in maggior misura a una scrittura (di Margaret Mazzantini) più melodrammatica che introspettiva, dove il romanesco più greve è letterariamente alternato a citazioni colte (nel caso specifico «Antigone» di Sofocle) e a un linguaggio quasi aulico.

Questo dislivello finisce per condizionare i pregi del regista, che non può fare a meno di rappresentare quanto presente sulla pagina e di conseguenza ad esporsi al rischio di un dramma convenzionale con corredo di traumi infantili, psicanalisi da salotto e almeno un personaggio (lo psicologo Patrizio) obiettivamente debole e mancante dei fondamentali. Fortunata, invece, e anche sua figlia Barbara sono personaggi veri, vitali, rabbiosi contro un mondo che appiccica etichette e valuta soltanto in ragione di ciò che si ha invece di ciò che si è. E Jasmine Trinca (più che un’interpretazione intensa ne esce un autentico tour de force anche fisico) e Nicole Centanni (una bambina con grinta e un disperato bisogno d’amore) mettono il sigillo femminile a una storia nella quale gli uomini si approfittano e prendono finendo per uscirne sconfitti.

A margine, un’elegantissima apparizione di Hanna Schygulla come ex-attrice malata di alzheimer. A conferma del fatto che la sensibilità di Castellitto ha sempre trovato terreno più fertile nell’universo femminile.

FORTUNATA di Sergio Castellitto. Con Jasmine Trinca, Stefano Accorsi, Alessandro Borghi, Edoardo Pesce, Nicole Centanni, Hanna Schygulla.  ITALIA 2017; Drammatico; Colore.