«FLAGS OF OUR FATHERS»

DI FRANCESCO MININNIE’ bello pensare alla delusione di quanti, da «Flags of Our Fathers» di Clint Eastwood, si aspettavano una specie di «battaglia dei giganti», o un film d’azione, o anche semplicemente un manifesto patriottico sponsorizzato da Steven Spielberg in veste di produttore. È bello per più di una ragione. Innanzitutto ci conferma che Eastwood da qualche anno ha smesso i panni del duro e ha cominciato a riflettere. In secondo luogo ci rassicura sul fatto che oggi, in America, qualcuno possa mettere in discussione il concetto di guerra giusta e di eroismo come valore assoluto. Infine ci piace pensare che Spielberg, producendo il film, abbia lasciato che Eastwood (in un certo senso) facesse a fette «Salvate il soldato Ryan» restituendo ai «nostri bravi ragazzi» una dimensione più reale e meno romanzesca.

Con tutto ciò, «Flags of Our Fathers» è un grande film, ma non un capolavoro. Scritto bene da William Broyles jr. e Paul Haggis, fotografato meravigliosamente da Tom Stern, ben interpretato da protagonisti e comprimari, risente però di una regia che troppo spesso si compiace di affrontare un argomento patriottico in modo da renderlo diverso da quanto quasi tutti si aspetterebbero. In un certo senso, sembra di ritrovare l’Eastwood di «Bird»: bravo, ma troppo preoccupato di piegare il proprio stile alla materia narrata. Il risultato, nettamente sopra la media, è un film un po’ più lungo del necessario e sovraccarico di flashback (già, proprio come «Bird»).

La riflessione sulla guerra nasce da Iwo Jima e dalla storica fotografia di Joe Rosenthal che immortala i cinque soldati che piantano la bandiera americana sulla vetta del monte Suribachi. Così, mentre americani e giapponesi continuano a morire, «eroi» diventano i tre sopravvissuti autori del gesto. Riportati in America, iniziano un tour propagandistico che dovrebbe indurre la gente a comprare i buoni di guerra e a finanziare così un conflitto che rischia di dichiarare bancarotta. Ma c’è di più: i tre soldati, Ira, Doc e Rene, non sono affatto i veri alzabandiera: sono soltanto quelli che, per motivi davvero banali, furono costretti ad alzare una seconda bandiera da sostituire alla prima. Ma, come si dice? Lo spettacolo deve continuare.

Il paragone con «Salvate il soldato Ryan» non è pretestuoso. Anche Eastwood, come Spielberg, parte con una ricostruzione realistica fino al pugno allo stomaco dello sbarco di Iwo Jima. Anche in «Flags of Our Fathers» c’è qualche sopravvissuto anziano che aiuta a ricordare. Non c’è, invece, il cambio di passo che riportava Spielberg sulla strada della guerra hollywoodiana: Eastwood continua ad usare la guerra come massacro in contrapposizione alle manovre degli uomini politici, alla difficoltà per i superstiti di ritrovare un posto nella vita, alla diffidenza nei confronti di un tam-tam mediatico che trasforma tutto in spettacolo, all’idea che alla base di tutto ci possa anche essere soltanto un grande affare. Riflessioni non da poco per un ex-bounty killer, poliziotto tutto d’un pezzo e istruttore di marines che un bel giorno, soffermandosi a pensare, ha realizzato anche film come «Un mondo perfetto», «Debito di sangue» e «Mystic River». E che, dopo «Flags of Our Fathers», ha addirittura diretto un secondo film sullo stesso episodio, «Lettere da Iwo Jima», visto però dall’altra parte della barricata, ovverosia quella giapponese.

FLAGS OF OUR FATHERS (Id.) di Clint Eastwood. Con Ryan Philippe, Jesse Bradford, Adam Beach. USA 2006; Drammatico; Colore