FAUST

DI FRANCESCO MININNI

La tradizione, cioè Goethe, Marlowe e Gounod, ma anche Murnau in cinema, ci hanno abituati a un Faust sostanzialmente romantico, bramoso di conoscenza, rammaricato del poco tempo a disposizione e quindi tutto teso verso il miraggio dell’eterna giovinezza. In questo terreno il diavolo tentatore trovava facilissimo farsi largo e assicurarsi l’anima del malcapitato che, per dovere di memoria, viveva e lavorava in ambienti alto borghesi di grande raffinatezza ed esclusività. Il film di Aleksandr Sokurov, vincitore del Leone d’Oro all’ultima Mostra di Venezia, spazza via d’un colpo la tradizione intera.

Innanzitutto, inquadrando il suo film come quarto tassello della tetralogia sul potere composta da «Moloch», «Taurus» e «Il sole», Sokurov dichiara subito le proprie intenzioni: evidentemente il diavolo tentatore sarà un simbolo del potere con pochissimi (forse nessuno) elementi metafisici. E Faust, che vive in una sorta di melma attraversata da relitti umani disperati e reietti, non è di certo uno scienziato a suo modo idealista alla ricerca della conoscenza assoluta; l’idea dell’eterna giovinezza non lo sfiora affatto; la passione per Margherita (anzi, Margaretha) è presente, ma non primaria e alla fine soltanto accennata. Il suo sogno primario è quello dell’autosufficienza, di poter decidere da solo e con le proprie decisioni far muovere il mondo intero. In sostanza, una sorta di delirio da onnipotenza tanto sconsiderato quanto vano.

La simbologia che muove il film è quella di un desiderio totalizzante di acquisire il potere: non quello che il tentatore gli offre, ma quello del tentatore stesso. Per raccontare tutto questo, Sokurov sceglie una via impervia e fortissimamente espressiva. A cominciare dal formato dell’immagine, un 4/3 dal sapore amatoriale (molto vicino in realtà al super8 domestico) con occasionali distorsioni di tipo espressionista (le inquadrature sghembe rese celebri da «Il gabinetto del dottor Caligari») e, per quanto l’epoca storica di ambientazione non sia mai definita con personaggi o eventi che la possano chiarificare, con un realismo brutale e sporco che a tratti dà l’illusione di poter addirittura percepire il fetore delle strade, del fango, dei cadaveri rappresentati. Se possiamo fare un appunto a «Faust» è che, per quanto sia evidente fin da subito che non è intenzione dell’autore richiamare le grandi platee con un kolossal spettacolare, passa troppo tempo prima che si possa effettivamente entrare nel film e smettere di chiedersi a che tipo di spettacolo stiamo mai assistendo. Dopo di che, quando le intenzioni di Sokurov sono palesi, ci abbandona la stanchezza e subentra una sorta di martellante stimolo intellettuale che, continuamente stuzzicato, vorrebbe subito conoscere moventi e destinazioni senza attendere i tempi solenni dell’autore. Nel frattempo, gli appassionati di pittura potranno godere di occasionali evocazioni delle tele di Brueghel, di Vermeer, fors’anche di Bosch.

Ma Sokurov non ha fretta: sa che il percorso scelto non trarrebbe alcun giovamento da accelerazioni o scorciatoie e pertanto procede senza esitazioni verso la mèta prefissa stando ben attento a rispettare quello che paradossalmente potremmo chiamare il rigore dell’eccesso. Quando le carte si svelano, si comprende bene come «Faust» non sia altro che il primo tassello della tetralogia: prima di Hitler, Stalin e Hirohito, che distorsero il potere ai propri fini, era necessario un antesignano che, sfidando il potere stesso, dimostrasse tutti i limiti propri, ovverosia della razza umana.

Se apparentemente il tentatore lapidato potrebbe essere un’immagine di vittoria, la sostanza è diversa. Mauricius (il tentatore) che da sotto le pietre grida a Faust che si allontana: «Chi ti aiuterà? Chi ti farà uscire di qui?» rappresenta la più cupa delle conclusioni. La morte del potere, in un certo senso, non corrisponde alla vittoria del singolo. Tutti perdono e il silenzio di Dio non lascia alcuna speranza sul destino dell’umanità. Claustrofobico, coerente e visivamente importante, «Faust» conferma il talento esclusivo ed elitario di Sokurov. Un regista per pochi.

FAUST di Aleksandr Sokurov.Con Johannes Zeiler, Anton Adasinsky, Isolda Dychauk, Hanna Schygulla. RUSSIA 2011; Drammatico; Colore