Fai bei sogni
Il romanzo autobiografico di Massimo Gramellini Fai bei sogni racconta con coraggio e semplicità le durezze della vita e come poterle superare, inquadrando il tutto in una lunga storia familiare che corrisponde a differenti modi di vedere la vita, a traumi da ricomporre, al passato come un puzzle con qualche pezzo mancante. Marco Bellocchio, che non è mai stato tenero verso l’idea stessa di famiglia inaugurando addirittura la propria carriera con «I pugni in tasca», che della famiglia racconta la radicale distruzione, se ne appropria per realizzare un film che, pur mantenendo una radice fortemente polemica e critica, non può fare a meno di indicare qualche istruzione per rendere il mondo più vivibile. In questo senso Fai bei sogni finisce per essere il suo film più sorprendente e in un certo senso controtendenza. Appare chiaro, ad esempio, che quarant’anni fa determinate situazioni lo avrebbero portato a una conclusione più traumatica e violenta. Oggi, invece, gli va di riflettere e di arrivare a una sorta di moderazione che non chiude le porte alla speranza.
A nove anni Massimo si ritrova improvvisamente senza madre, uccisa da un infarto fulminante. La mancanza è traumatica sia per lui che per il padre, al punto da scavare tra i due un solco che mai si ricomporrà. Il bambino, oltre a non accettare la morte della madre, avverte intimamente di essere stato privato di qualcosa che lo accompagnava nella crescita. Non trovando alcuna spiegazione al fatto, cresce quasi da solo e, pur facendosi strada nella vita, mantiene un fondo d’angoscia, di privazione e di nevrosi. Da una parte l’incontro con Elisa, una dottoressa che lo capisce e prende a cuore il suo caso e la sua vita, dall’altra la rivelazione della reale causa della morte della madre, lo porteranno a una faticosa via d’uscita.
Il dato più sorprendente riguardante il cinema di Bellocchio è l’improvviso abbandono di realtà parallele, personaggi enigmatici e polemica intellettuale per abbracciare una narrazione spudoratamente popolare dove i simboli sono immediatamente accessibili e i personaggi senza alcun dubbio reali. Così l’utilizzo di Belfagor (il fantasma del Louvre dello sceneggiato francese) come spirito guida è legato a un successo televisivo degli anni Sessanta. Così le canzoni presenti nella colonna sonora sono successi dell’epoca. Così lo schianto dell’aereo del grande Torino a Superga o i tuffi di Giorgio Cagnotto sono immagini di salti nel vuoto che Massimo condivide e vive in prima persona. Non c’è spazio per le astrazioni filosofiche: il percorso di Massimo è una (semplice?) salita verso un’ipotesi di pianura.
Certo, Bellocchio non rinuncia alle proprie convinzioni: la morte della madre può essere letta come un atto d’egoismo soprattutto nei confronti del figlio e l’assenza del padre conferma la difficoltà dell’autore nel rappresentare serenamente un tale rapporto. Ma per una volta la polemica non è protagonista: si tiene in disparte, emerge solo a tratti, lascia spazio alle ragioni degli altri. Il risultato è più toccante e coinvolgente di quanto ci aspetteremmo da un maestro della provocazione, che evidentemente ha trovato nel libro di Gramellini anche materiale di riflessione consapevole e obiettiva. In altre mani Fai bei sogni avrebbe potuto trasformarsi in un melodramma di superficie. Qui, invece, si percepisce una volontà di capire, di guardarsi dentro, di ricucire i fili del passato che appartengono a un carattere sensibile e aperto che ha momentaneamente messo da parte un’indignazione apparentemente inesauribile. L’interpretazione di Valerio Mastandrea conferma la crescita di un attore capace di profondità e indicatissimo per ruoli che prevedano un forte disagio esistenziale. Bellocchio resta un autore importante, tanto più se capace di rimettersi in gioco ben sapendo di camminare su un terreno minato.