Exodus – Dei e Re
In realtà le somiglianze sono più legate al fatto che la Storia è da entrambi considerata un serbatoio di spettacolo, che si rispettino o meno le coordinate storiche pervenute fino a noi: spettacolo fiammeggiante per De Mille, spettacolo più realistico per Scott. Ma fiammeggiante e realistico non sono termini riferiti al modo di approcciare la Storia, bensì a questioni principalmente tecniche. Il fatto che Ridley Scott decolori l’antichità e cerchi di liberarsi dal mito adottando parametri più scientifici non implica una maggiore credibilità storica. Anche perché il primo a non credere in quella storia che implica un rapporto diretto tra Dio e l’uomo è proprio lui.
Così in «Exodus» trasforma Mosè in un guerriero che istruisce i suoi uomini sulle tattiche della battaglia, si confronta con Ramses come su un ring e divide il Mar Rosso impugnando una spada invece di un bastone. E trasforma Dio, dopo un attimo di distrazione in cui fa vedere il roveto ardente, in un bambino un po’ imbronciato che non vede l’ora di schiantare il faraone che si crede una divinità, che intima a Mosè di starsene da una parte a guardare i suoi effetti speciali delle dieci piaghe d’Egitto e che solo alla fine si decide a camminare insieme al suo popolo.
Tutto ciò, senza trascurare la divisione del Mar Rosso trasformata in uno tsunami di dimensioni (per così dire) bibliche, indica in Scott, oltre all’evidente intenzione di conquistare i mercati mondiali e di sbancare i botteghini, anche una sorta di volontà di rileggere l’Antico Testamento in modo da poter spargere dubbi e confusione, soprattutto in chi non abbia una preparazione solida e approfondita. Gli errori de «Il gladiatore» erano sciocchezze all’americana, come il colonnato del Bernini già presente nell’antica Roma o il Colosseo posto di fianco al Pantheon. Gli errori de «Le crociate» erano riletture politiche che prevedevano la trasformazione di un feudatario in un maniscalco che diventa cavaliere.
Gli errori di «Exodus» comprendono un po’ di tutto: la costruzione delle piramidi attribuita agli ebrei mentre risulta che fossero lì già da qualche secolo; gli ebrei che subiscono le piaghe al pari degli egiziani; l’inserimento di voracissimi coccodrilli ad introdurre la piaga dell’acqua mutata in sangue; un Dio bambino che mai una volta mostra misericordia ma lavora d’accetta sull’eliminazione del popolo dominatore; i suoi battibecchi con Mosè quando questi non capisce o non condivide le procedure adottate.
Una gran confusione che, alla fine, porta a interrogarsi sulla reale direzione che Scott volesse imprimere alla storia costringendoci a concludere che non lo sappiamo. Di sicuro l’autore ha messo in campo uno stile particolarmente sobrio e trattenuto per non cadere nelle trappole del kolossal in Technicolor, che invece ha accettato integralmente facendo rimbombare le musiche solenni e trionfalistiche di Alberto Iglesias. La scelta di Christian Bale per la parte di Mosè corrisponde alla volontà di disegnare un personaggio fisico e deciso, ma soprattutto tormentato. Il fatto che tutti gli egiziani siano interpretati da attori di pelle bianca come Joel Edgerton, John Turturro e Sigourney Weaver non è certo il problema maggiore.
Quando si arriva alla fine si prende atto del fatto di non essersi annoiati, di aver visto belle immagini e comunque di aver assistito a una rilettura personale.
Resta da chiedersi se fosse proprio necessario. In fondo, la Terra Promessa non si trova dalle parti di Hollywood.