ET IN TERRA PAX

DI FRANCESCO MININNI

Marco è appena uscito dal carcere e, esitando a rientrare nel «giro» della malavita di borgata, si guarda in giro alla ricerca di un’alternativa. Sonia studia e, per sentirsi minimamente indipendente, lavora a part time nel bar di Sergio. Faustino, Federico e Massimo, invece, non lavorano, non studiano, vivono l’inadeguatezza di chi non fa niente per cambiare le cose e, alla fine, esplodono in un atto di violenza gratuita (nei confronti di Sonia) che vuol dire soltanto lasciare che ogni cosa rimanga com’è oppure peggiori. Il loro gesto, però, scatena la reazione di chi, nel quartiere, teme che una consistente attenzione da parte della polizia possa interrompere quella che miseramente è considerata «bella vita». Sono i malavitosi stessi, perciò, a dare la caccia ai colpevoli. E alla fine Marco, che proprio non riesce a starne fuori, metterà una parola fine che vuol dire soltanto «continua».

Produzione indipendente, film povero, borgate romane molto lontane dal centro, un senso di abulia e ignoranza che preludono a un incombente disastro: c’è tutto, in «Et in terra pax» di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, per evocare i ragazzi di vita di Pasolini, le periferie borderline di Garrone, gli sfasciacarrozze criminali di Camarca. Sopra ogni cosa, però, c’è un fatalismo irrimediabile che potrebbe essere l’anticamera della maniera. Corre una certa differenza, infatti, tra prendere atto di una situazione dura, disperata e violenta e appellarsi alla sua irrisolvibilità. Il film di Botrugno e Coluccini non mostra di voler seguire il percorso durissimo e doloroso, ma alla fine aperto a una speranza, intrapreso da Antonio Capuano ne «L’amore buio», né tanto meno di abbracciare le discese ardite dei Dardenne che sempre si trasformano in faticose risalite.

I due autori sembrano convinti che a tanta disperazione proprio non possa esserci rimedio e quindi lavorano alla rappresentazione di una caduta libera priva di paracadute. Se, pertanto, alcune pagine del loro cinema povero sono molto forti, comunque lontane da ogni compiacimento e aggiustamento spettacolare, sinceramente partecipi delle disgrazie dei protagonisti, è proprio l’assenza di ogni ancora di salvezza (che nella realtà c’è sempre, ma proprio sempre) a togliere vigore a un film che appartiene più alla maniera del «come siamo disgraziati» che al coraggio del «facciamo qualcosa». Botrugno e Coluccini sembrano sinceramente convinti che i loro personaggi, probabilmente tratti da qualche fatto di cronaca nera, siano da sempre condannati a soccombere e, artisticamente e umanamente, si comportano di conseguenza.

Con il commento di due soli pezzi musicali, «Et in terra pax» di Antonio Vivaldi e «Adagio in Re minore» di Alessandro Marcello (più conosciuto come «Anonimo Veneziano»), costruiscono un mondo marginale che proprio non riesce ad andare al di là del fatto di cronaca: ragazza violentata, colpevoli uccisi, assassino sconosciuto. Sappiamo bene, in realtà, come queste definizioni nascondano sempre un prima, un durante e un dopo che non permettono di limitarsi all’ineluttabilità del fatto. Resta, naturalmente, la positiva volontà di tenersi a distanza da un mercato che avrebbe comunque reso il tutto più attraente e spettacolare.

Botrugno e Coluccini, se non altro, si chiamano fuori da giustizieri, vendicatori, ronde di vigilantes e scontri a fuoco, escludendo dalla loro rappresentazione qualunque riferimento visivo alle forze dell’ordine. La loro periferia è solo di chi ci abita e, a quanto è dato di vedere, ci abiterà sempre. E l’unico riferimento cinematografico reale, quando i malviventi si mettono alla caccia dei violentatori, è a «M – Il mostro di Dusseldorf» di Fritz Lang.

Anche Botrugno e Coluccini, comunque, sanno che c’è bisogno d’aiuto. In questo senso la mano di Sonia che stringe quella della nonna potrebbe essere un buon inizio.

ET IN TERRA PAX, di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.Con Maurizio Tesei, Ughetta D’Onorascenzo, Michele Botrugno, Fabio Gomiero, Germano Gentile. ITALIA 2010; Drammatico; Colore