Elle

Strano mondo quello messo in scena frequentemente da Paul Verhoeven. Nella totale assenza di modelli positivi, si divide equamente tra ossessioni, malattie, perversioni e distorsioni di una realtà che, con tutto il pessimismo possibile, non è mai così a senso unico, glaciale e disturbante. In questo senso sono persino stupefacenti certe dichiarazioni di critica e pubblico che hanno visto in Elle un messaggio molto forte sull’emancipazione della donna, sulla ridiscussione del suo ruolo all’interno del tessuto sociale, sulla sua forza di reazione in presenza di situazioni estreme. Stando a ciò, Elle non sarebbe una storia di violenza e vendetta, ma un trattato sociologico.

Secondo noi, invece, pur non trattandosi soltanto di violenza e vendetta, Elle è uno dei film più antifemminili degli ultimi anni, che probabilmente fa concorrenza persino alle esternazioni di Lars von Trier in Antichrist.

È un film che ruota interamente intorno al personaggio di Michèle (Isabelle Huppert) e che a questo personaggio permette di modellare a proprio piacimento la famiglia, il vicinato, le amicizie e forse anche il resto del mondo. E lo fa con un magistero tecnico impeccabile, riproponendo un regista capace di creare atmosfere, di radiografare ambienti, di riprodurre un mondo già estremizzato attraverso una lunga teoria di specchi deformanti in un modo che finisce per renderlo plausibile e degno di attenzione. A patto che lo spettatore più attento non capisca il trucco e smascheri il geniale mistificatore.

Michèle è a capo di un’azienda produttrice di videogame (ovviamente estremi). Dopo aver subito violenza in casa ad opera di uno sconosciuto mascherato, comincia con l’assalitore, che torna a farsi vivo con messaggi telefonici, un gioco perverso del genere gatto e topo. Naturalmente il gatto è lei. Nel suo mondo totalizzante gravitano il figlio Vincent (un debole), l’amante Robert (marito dell’amica Anna), il vicino di casa Patrick (un broker con moglie molto cattolica) e l’ex-marito Richard (che cerca inutilmente di rifarsi una vita sentimentale). Tra tutti, Michèle si muove con gelida sicurezza nella certezza che tutto, proprio tutto, andrà esattamente come vuole lei.

Tratto da un romanzo di Philippe Djian, Elle offre l’immagine di un microcosmo (ma non c’è motivo per non estenderlo anche a ciò che non si vede) di un’umanità non soltanto sofferente, ma addirittura essiccata, privata degli elementi basilari che ne consentano la convivenza e l’accordo, costruita con il pianeta Michèle e con una serie di satelliti che di lei proprio non possono fare a meno (e guai a dire nel bene e nel male, perché il concetto di bene sembra proprio assente).

Quindi appare evidente come la violenza sessuale che la donna subisce non rappresenti per lei né un trauma né una violenza a tutti gli effetti. Si potrebbe dire che, dato il personaggio, è quello l’unico amore che le è consentito, che addirittura le piace e che, in fin dei conti, le dà la possibilità di tessere le proprie trame e di imporre se stessa non soltanto all’aggressore, ma a tutti.

Michèle è pertanto un personaggio dominante, in un certo senso mostruoso, anaffettivo, felice di se stesso e in guerra permanente con tutti e tutto. In effetti non le interessa niente: il successo professionale, il ruolo di madre, quello di amante sono soltanto strade che la portano consapevolmente a un’affermazione di sé nella distruzione degli altri. E poi c’è il ruolo di figlia: sua madre Irène è una donna vitale che lei vedrà morire senza batter ciglio, suo padre è in carcere per omicidio plurimo da quando lei aveva dieci anni. Decidendosi a visitarlo in carcere dopo l’ennesima respinta della richiesta di libertà condizionata, lo trova morto, impiccato a un lenzuolo, e gli sussurra: «Ti ho ucciso io venendo qui». Davvero, un mondo troppo brutto per essere vero.

ELLE (id.) di Paul Verhoeven. Con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Christian Berkel, Jonas Bloquet, Charles Berling. FRANCIA 2016; Drammatico; Colore.