È arrivata mia figlia
È cinema interamente al femminile «È arrivata mia figlia!», della brasiliana Anna Muylaert. Il che significa, al di là di regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio e produzione curati da donne, un punto di vista sociale ben preciso che, nonostante qualche semplificazione, individua ancora il soggetto femminile come bisognoso di consapevolezza (diremmo presa di coscienza) del proprio ruolo per la riconquista di una dignità antica eppure ancora dovuta. Le semplificazioni stanno nel fatto che i personaggi maschili sono defilati o schematici o semplicemente marginali, il che però sta a significare che anche in una società a prevalenza femminile ci sono ancora molte donne soggette a sfruttamento dovuto non tanto a malvagità o smania di possesso, ma anche soltanto a quello che potremmo chiamare diritto di nascita. Esistono cioè predisposizioni alla sudditanza dovute al fatto che la tradizione dice così e che nessuno ha mai pensato di cambiare le cose. Tutto questo Anna Muylaert lo esprime con semplicità, senza intellettualismi, calandosi interamente nel personaggio della governante Val che, dopo una lontananza di dieci anni, riesce finalmente a rivedere la figlia Jéssica che deve sostenere un esame di ammissione alla facoltà di architettura a San Paolo.
Val vive pienamente la propria condizione di governante: ha sempre saputo quel che si può e quel che non si può fare («Si sa dalla nascita, non c’è bisogno di nessuno che te lo insegni»), non si permetterebbe mai di trasgredire, ha cresciuto Fabinho come fosse figlio suo compensando così le assenze della madre Barbara, donna in carriera, ed è contenta così. Jéssica, invece, no. Allevata da un’amica di famiglia, ha maturato uno spirito ribelle che la porta a non capire gli atteggiamenti della madre e a cercare di spingerla al cambiamento. Con tutto l’amore materno, Val si trova in grande difficoltà, essendo comunque legata al principio della sottomissione e dell’obbedienza. Almeno fino a quando la scoperta della maternità di Jéssica la porterà a cambiare atteggiamento.
In realtà non c’è niente di straordinario in «È arrivata mia figlia!». Un po’ dramma, un po’ commedia, con la tendenza a prendersi tutto il tempo per arrivare alle conclusioni, con uno stile piano e senza svolazzi, appoggiandosi interamente sulle spalle di Regina Case, un’attrice da noi sconosciuta ma di grande successo in Brasile. E, alla fine, è più lei che Maria Muylaert a fare il film disegnando un personaggio pieno di vita in attesa di qualcuno o qualcosa che inneschi la miccia per accenderla. Il percorso di Val, personaggio chapliniano più nella destinazione che nella partenza, corrisponde a un’autoconsapevolezza che, senza prefigurare alcuna rivoluzione, corrisponde a un’autentica lotta di classe e alla precisa volontà di affermare il proprio io in un mondo che la ignora se non per le sue caratteristiche professionali.
In questo senso ha molta importanza il polo opposto del film, una famiglia padronale perfettamente anomala. Carlos, il capofamiglia, è quello che ha i soldi ma nessuna autorevolezza, nessun lavoro, nessuna forza d’animo. Barbara, la moglie, è quella che lavora da manager e che per questo sacrifica tutto il resto comportandosi con freddezza e fingendo familiarità. Non a caso Fabinho, più perdigiorno che studente modello, identifica in Val, non in lei, la figura materna di cui avrebbe un gran bisogno. E, fino al momento di darsi una svegliata, Val accetta tutto questo come facesse parte di una vocazione cui sarebbe per lei sbagliatissimo sottrarsi. Per questo motivo il suo percorso, oltre che condivisibile da un punto di vista umano e sociale, è anche molto toccante nella sua semplicità. Più della scelta finale, infatti, ha valore per il suo impatto sul pubblico la scena in cui, contravvenendo a una precisa regola non scritta, Val sguazza con i piedi nell’acqua bassa della piscina dei padroni. Un gesto che vale un’affermazione di uguaglianza assimilabile a un cambiamento epocale.