Dogman

Matteo Garrone, dopo averci lungamente pensato, si è assunto tutta la responsabilità e tutti i rischi di trasformare in film la vicenda del canaro della Magliana, Pietro De Negri, e dell’atroce vendetta da lui messa in atto nei confronti di Giancarlo Ricci, ex-pugile e complice di scorribande criminali. I rischi sono presto detti: una spettacolarizzazione alla Tarantino, un’indulgenza sui pochi sentimenti e sulle molte efferatezze, un cinema effettistico che punta allo stomaco più che al cuore o al cervello. In più, dopo L’imbalsamatore, Gomorra e Reality, una nuova incursione nelle periferie violente che avrebbe potuto indurre il sospetto di tematiche ricorrenti e replicate. Invece Dogman è altra cosa. Girato a Castelvolturno, presentata come una terra di nessuno dove le figure umane sono comunque secondarie e troneggiano edifici impersonali sullo sfondo del nulla, il film scarnifica la vicenda di De Negri modificandone le dinamiche e molti particolari e trasformandosi in un desolante dramma della solitudine nel quale il compiacimento per quanto mostrato è proprio l’ultimo dei pensieri dell’autore.

Marcello gestisce un’attività di toilette per cani, ha una figlia che vede ogni tanto, ha un buon rapporto con il vicinato e subisce regolarmente le angherie di un bullo di quartiere (uno dei tanti) cocainomane e violento, Simone. Marcello cerca disperatamente di vivere la propria vita per quanto miserevole possa essere, ma non ha alcuna possibilità di gestire le intemperanze dell’altro che lo cerca per avere cocaina, lo coinvolge in furti e rapine, lo tratta come una pezza da piedi ed è comunque convinto di essere il più forte. Questo dura fino al giorno in cui Marcello, dopo essersi fatto un anno di prigione al posto suo, reclama la sua parte del bottino. Simone non lo sa, ma Marcello non è più disposto a subire.

Si è parlato di Cane di paglia di Peckinpah o di Un borghese piccolo piccolo di Monicelli. In entrambi i casi, e con modalità molto diverse, si trattava (come si dice in gergo calcistico) di falli di frustrazione. Garrone, invece, racconta una storia di dignità perduta ma non scomparsa che improvvisamente torna a farsi sentire in quello che in certi ambienti è considerato l’unico modo possibile. La vittima chiude la questione servendosi delle stesse modalità usate dal persecutore.

Ma lo ripetiamo: Dogman non è una storia di violenza, di vendetta, di crudeltà. È un’umanità sbandata e sofferente che non conosce altro modo per far sentire la propria voce. Automaticamente, il film di Garrone non parteggia per nessuno. Non ci sono vincitori. Tutti, in un modo o nell’altro, ne escono sconfitti. Quello che Garrone fa nei confronti del pubblico è costringerlo a prendere atto di una situazione che non è una finzione, ma una realtà. E il messaggio, molto più che in Gomorra, arriva forte e chiaro.

Dogman è un film scarno, essenziale, decolorato, livido e doloroso. Per capire quanto Garrone abbia lavorato sui fatti e sul come rappresentarli, basta andare a leggere qualche cronaca del 1988 che descrive con dovizia di particolari l’entità della vendetta di De Negri su Ricci. Apparirà subito chiaro che nel film è stato rappresentato l’essenziale senza soffermarsi sui dettagli da cronaca nera. Quindi, anche se a prima vista può sembrare un’affermazione paradossale, Dogman è un film che lavora interamente sulla sottrazione e a cui interessano molto più le ragioni degli esseri umani di quelle dello spettacolo. Garrone è riuscito a fare questo senza stare con l’uno o l’altro dei contendenti, ma mantenendo la neutralità del cronachista.

Gli sono di grande aiuto la fotografia di Nicolai Brüel e due protagonisti perfetti: Marcello Fonte nel ruolo del canaro e Edoardo Pesce in quello di Simone. Due personaggi difficili, a rischio di macchietta o di esagerazione, che vengono invece padroneggiati al meglio senza trucchi del mestiere. Dogman racconta una realtà che sembra lontanissima e invece è a due passi da casa nostra.

Dogman di Matteo Garrone. Con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli. ITALIA 2018; Drammatico; Colore.