DIARY OF THE DEAD

L’autocritica di un regista. È il primo pensiero che viene in mente vedendo «Diary of the Dead», quinto tassello dell’epopea degli zombi voluta e portata avanti nell’arco di vent’anni da George A. Romero. Perché, se da una parte salta agli occhi il cambiamento di stile da narrativo a giornalistico, dall’altra si capisce molto bene come tale cambiamento non sia dettato da ragioni estetiche o da una semplice necessità di svecchiamento, bensì da una forte esigenza simbolica.

«Mio Dio, si sta muovendo!». Comincia tutto così, con tre cadaveri che, durante una diretta televisiva per un programma di news, prima si agitano sotto il lenzuolo della lettiga, poi si rialzano e attaccano poliziotti, infermieri e giornalisti. Altrove una troupe diretta dal regista Jason Creed sta girando il solito horror con mummia e candida fanciulla. Quando arrivano le prime notizie del risveglio dei morti, Jason decide di punto in bianco di cambiare programma e di girare, cammin facendo, tutto ciò che potrà sul nuovo fenomeno. Ciò lo porta in primo luogo a disinteressarsi di quanto gli accade intorno in quanto essere umano, in secondo luogo a filmare senza portare il minimo aiuto, infine a morire. Sarà la sua donna, Debra, a incaricarsi di terminare il film. Che, naturalmente, potrebbe non aver mai fine.

E torniamo alle motivazioni. Dopo «La terra dei morti viventi» ci chiedemmo che tipo di evoluzione potesse mai avere una vicenda che sembrava arrivata al suo naturale (parola grossa, trattandosi di zombi) compimento. Romero ci risponde con chiarezza: da una parte tornando indietro nel tempo, forse addirittura a quando tutto cominciò; dall’altra, in un certo senso, trasportando i suoi zombi dal regno della fiction a quello di una realtà il più possibile oggettiva, ruvida, cruda e terribilmente critica. Certo, la critica ha sempre aspetti sociali, politici ed esistenziali. Ma Romero sa benissimo di aver detto molto, forse tutto sull’argomento, e che un’eventuale appendice non potrebbe che sovrapporsi al già detto. E allora inventa il reportage: da una parte per ragioni di stile, perché ciò che stiamo vedendo non sappia di già visto, dall’altra per mettere in gioco se stesso. Perché è evidente che Jason Creed potrebbe essere Romero stesso intento ad osservare nella realtà ciò che fino al 2005 aveva mantenuto nell’ambito della finzione. Come dire che le sue creature da incubo sono uscite dallo schermo e camminano tra noi. Ma non basta: consapevole di aver creato un immaginario forte che rischia più volte di far passare in second’ordine le motivazioni simboliche, Romero si autopunisce rappresentandosi come un cinico «artista» che permette alla propria arte di prendere il posto della realtà. Proprio per questo motivo Jason Creed troverà la morte.

Sembra dunque che il decano degli zombi, scagliandosi contro lo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa, si scagli un po’ anche contro se stesso. Pur mantenendo una sottile vena ironica che, ad esempio, gli suggerisce di affidare alle voci di qualche amico quelle dei commentatori dei network, dove «qualche amico» si chiama Wes Craven, Stephen King, M. Night Shyamalan, Quentin Tarantino, Guillermo Del Toro e Simon Pegg (protagonista de «L’alba dei morti dementi»). Bisogna dire che, per quanto a lungo andare il gioco degli zombi potrebbe autodistruggersi, fino ad oggi Romero è riuscito a interessarci e, qua e là, a sorprenderci. Lanciando frecciate velenose contro i potenti della Terra («Il Presidente dal suo ranch invita la popolazione a mantenere la calma»), contro la società dei consumi o contro se stesso, è riuscito sorprendentemente a mantenere una certa giovinezza creativa. Senza alcun ottimismo. La battuta conclusiva di «Diary of the Dead» è: «Questa umanità merita di essere salvata? Ditemelo voi».

DIARY OF THE DEAD (Id.) di George A. Romero. Con Michelle Morgan, Joshua Close, Shawn Roberts, Joe Dinicol. USA 2007; Horror; Colore