Detroit
Detroit, Michigan, è la capitale americana dell’industria automobilistica. Questo è quanto preferiscono ricordare i benpensanti come immagine di un’America che cresce, produce ed esporta. Ma proprio cinquant’anni fa, nel 1967, Detroit fu la capitale mondiale degli scontri razziali. E questo ci pensa Kathryn Bigelow a ricordarlo a tutti, benpensanti compresi, con un film, Detroit appunto, che ricostruisce quanto accaduto un po’ sulla base degli atti un po’ sulla base di testimonianze delle quali all’epoca non si tenne conto. Ma Bigelow non si limita a ricostruire il passato: anche in considerazione della recente recrudescenza delle violenze della polizia sulla popolazione di colore, getta ombre sinistre sul presente. È evidente che i problemi razziali non cominciano da Detroit, ma da molto più lontano. Però è altrettanto evidente che la rilevanza dell’episodio permette di tracciare un bilancio e di concludere che ciò che non è cominciato da lì è ben lontano dall’essere finito. Kathryn Bigelow ha smesso da un pezzo di essere regista di film d’azione. E anche Blue Steel e Point Break avevano le loro problematiche. Detroit racconta un pezzetto di storia americana stando ben attento a non fare sconti a nessuno. E la frase sul manifesto «Un film al cardiopalma» potrebbe rivelarsi ingannevole.
A Detroit, nel quartiere nero, la tensione è alle stelle e il corpo di polizia fatica a mantenere l’ordine. Quando poi la tensione si trasforma in vandalismo, sciacallaggio e resistenza armata, i metodi polizieschi diventano coercitivi, prepotenti e intimidatori. Al punto da trasformare un alberghetto tranquillo, l’Algiers, in una zona di guerra. Chiunque si trovasse al suo interno fu il potenziale sospettato di colpi d’arma da fuoco (in realtà una scacciacani) esplosi da una finestra contro le forze dell’ordine. E siccome il poliziotto artefice della retata, Krauss, era convinto a priori di aver a che fare con delinquenti e che ci dovesse per forza essere qualche arma nei locali, non risparmiò violenze fisiche e psicologiche pur di ottenere le prove che non c’erano. Finì con tre morti e un processo da cui gli imputati (cioè le forze dell’ordine) uscirono tutti assolti.
Forse siamo noi che sentiamo la necessità di accostare l’episodio del 1967 a un presente troppo simile e più pericoloso. Forse Kathryn Bigelow non è stata così esplicita. E questo potrebbe essere un limite del film. Ma il fatto stesso di aver scelto un episodio ben noto in America, ma non altrettanto nel resto del mondo, denota in lei la volontà di raccontare qualcosa che aiuti tutti a capire meglio quel che sta accadendo. Di conseguenza, Detroit assume un’importanza che va al di là di ogni limite. E in fondo ne dà testimonianza la modalità del racconto: tre parti distinte, una in strada, una nell’albergo e una nel tribunale, come tappe successive di una discesa nella violenza che dai delinquenti di strada passa nelle mani della polizia e poi delle istituzioni stesse.
Poi c’è la tecnica adottata per il racconto: Bigelow gira quasi sempre con la macchina a mano impedendo qualunque rilassatezza a chi guarda ed evitando accuratamente una confezione classica e in qualche modo riposante al di là dell’argomento affrontato. Ne esce un film nervoso, ritmatissimo, molto più attento alle lunghe pause sui personaggi che a vere e proprie scene d’azione. E Detroit, o almeno quella particolare zona di Detroit, si trasforma rapidamente in un girone infernale dove i carnefici sono vestiti da poliziotti e le vittime, indipendentemente dal colore della pelle (anche se il nero è molto gradito), sono tutti quelli che entrano nel loro campo visivo. Si arriva in fondo a due ore e venti di film senza un attimo di distrazione e alla fine ci si chiede se Will Poulter, che interpreta Krauss, sia un attore o un poliziotto vero. La prima donna regista a vincere l’Oscar, evidentemente, sa quel che fa.
DETROIT (id) di Kathryn Bigelow. Con Will Poulter, Hannah Murray, Jack Reynor, John Boyega, Anthony Mackie, John Krasinski. ITALIA 2017; Drammatico; Colore.