COUS COUS
DI FRANCESCO MININNI
La battaglia di Algeri, oggi, si combatte dalle parti di Marsiglia. Dove Slimane, magrebino emigrato in Francia, perde il posto nel cantiere navale dove lavora da anni e, praticamente impassibile, invece di lasciarsi andare alla disperazione mette mano al progetto più improbabile: l’apertura di un ristorante a bordo di una barca in disarmo, nonostante tutti gli ostacoli posti dalle autorità portuali, da quelle comunali e dall’ufficio d’igiene. La situazione sentimentale di Slimane, che ha figli da due donne diverse (e naturalmente ognuno contribuisce con i propri problemi), non contribuisce all’andamento tranquillo della pratica. E quando, nonostante tutto, Slimane riesce ad organizzare una serata inaugurale invitando tutte le autorità che non l’hanno agevolato, il destino ha in serbo un’ultima beffarda sorpresa.
Adbellatif Kechiche («Tutta colpa di Voltaire», «La schivata») non è un esordiente. Eppure riesce a raccontare le proprie storie sempre con l’entusiasmo di un ragazzino che non rinuncia mai a riflettere sulle cose. «Cous Cous», premio della giuria all’ultimo Festival di Venezia dove molti, pubblico compreso, lo avrebbero voluto Leone d’Oro (assegnato, chissà perché, a «Lussuria» di Ang Lee), è un film accorato e toccante, ora brillante ora drammatico, che ci racconta quale possa essere il modo di vivere di chi per forza di cose è stato costretto a lasciare il paese natale e a inserirsi in una realtà molto diversa. Slimane, interpretato con grande dignità da Habib Boufares, è un esempio illuminante di un uomo che, senza mai chinare il capo di fronte alle avversità, è comunque destinato alla sconfitta individuale. Kechiche, nel raccontare le sue vicende, ha cercato di calarsi totalmente nella «magrebinità» adeguando stile e ritmo del racconto. Questo, se da una parte trasmette una sensazione di verità, dall’altra crea qualche problema di ordine tecnico e narrativo.
A una prima parte a lungo andare appassionante, dove il vociare dei personaggi, l’ossessiva ripetizione degli atti quotidiani, la precisa sensazione di trovarci in un altro mondo a due passi da casa nostra, fanno sì che la storia di Slimane diventi quella di tanti di noi che combattono col presente, fa riscontro una seconda che, per non rinunciare al martellamento di un’azione ossessiva che mette a dura prova anche il più paziente degli spettatori, dilata fino all’inverosimile ogni dettaglio indipendentemente dalla sua effettiva importanza. Che sia il cambio di un pannolino, il pianto di una moglie tradita, la frenetica rincorsa di Slimane dietro al motorino rubato o la danza del ventre di una figlia per intrattenere gli invitati in attesa del più kafkiano (o beckettiano) dei cous cous, il film sembra trasformarsi nell’opera di un volenteroso debuttante che si è imposto di non rinunciare neanche a una riga di sceneggiatura.
Certo, così facendo Kechiche ottiene l’effetto voluto: un’angoscia che attanaglia e prepara a una conclusione ispirata da un disperato fatalismo. Come dire che il destino del più debole, anche se spinto da ottime intenzioni e guidato da una volontà incrollabile, è comunque segnato: sia nell’aspirazione a un lavoro dignitoso sia nel desiderio di una famiglia in grado di accogliere, curare, rassicurare. Se da una parte questa storia corale può ricordare certe opere di Robert Altman, dall’altra si fa apprezzare per la sua totale appartenenza al mondo che racconta. E anche se si arriva alla fine con il fiato un po’ grosso, non si ha comunque l’impressione di aver sprecato del tempo.
COUS COUS (Le grain et le mulet) di Abdellatif Kechiche. Con Habib Boufares, Hafsia Herzi, Faridah Benkhetache, Abdellhamid Aktouche. FRANCIA 2007; Drammatico; Colore