«CODICE 46»

DI FRANCESCO MININNIDifficile pensare a un regista così attento al presente come Michael Winterbottom che prende improvvisamente la strada della fantascienza. E infatti «Codice 46» ha l’aspetto della storia futuribile, ma non la sostanza. L’ambientazione, tra il bianco abbagliante di una Shanghai atemporale e il grigiore di un deserto senza fine, è futuribile. Il rigoroso controllo della popolazione mediante sistemi elettronici è futuribile. L’assoluta necessità di avere un’identità rappresentata da un codice a barre è futuribile. Ma il senso di «Codice 46» è evidentemente simbolico e riguarda una serie di situazioni amministrative, relazionali e interiori che sicuramente stiamo già vivendo.

William, agente di una società di assicurazioni, arriva a Shanghai per indagare sulla falsificazione e il commercio clandestino dei documenti che permettono alla gente di muoversi più o meno liberamente da una città all’altra. Il suo intuito gli suggerisce che la responsabile del fatto sia Maria. Ma lui non la denuncia e prende a frequentarla, avviando una relazione con lei. Questo, data la loro compatibilità genetica, costituisce una violazione del codice 46…

Pur prendendo atto delle buone intenzioni di Winterbottom, bisogna dire che «Codice 46» si dà un gran daffare per sfondare porte già aperte. Alla base di tutto c’è l’idea di un mondo abitato da persone omologate e strettamente sorvegliate: la stessa situazione immaginata da Orwell nel suo celebrato «1984», che aveva in più un’intuizione straordinariamente profetica. Il rigoroso controllo delle nascite e, quindi, la creazione di un codice che proibisse contatti sessuali non autorizzati era stato descritto da George Lucas ne «L’uomo che fuggì dal futuro». La possibilità di pianificare la procreazione e la necessità di possedere determinati parametri fisici per essere ritenuti abili erano le colonne portanti di «Gattaca / La porta dell’universo» di Andrew Niccol. In tutti e tre i casi, la fantascienza era soltanto un pretesto per parlare del presente. Ecco dunque che «Codice 46» arriva buon ultimo e senza particolari novità che gli permettano di ritagliarsi un proprio spazio autonomo. Per quanto lucido e molto chiaro nell’esposizione, ci racconta cose che già sappiamo: non fugge dal futuro, ma ci torna percorrendo sentieri già battuti da altri.

Tim Robbins, noto per le sue battaglie democratiche e per l’aperta opposizione all’amministrazione Bush, si presta volentieri a interpretare un inquadrato sull’orlo del «tradimento». Ma meglio di lui figura Samantha Morton, capace di fondere alla perfezione innocenza, fragilità e gran coraggio. Lo stile di Winterbottom è sempre riconoscibile: algido, lontano da ogni compiacimento, attento all’interazione di immagini e suoni per ottenere un risultato che non si presta ad ambiguità di lettura. Ha l’unico, non trascurabile difetto di aver scelto un argomento già codificato.

CODICE 46 (Code 46) di Michael Winterbottom. Con Tim Robbins, Samantha Morton, Om Puri, Jeanne Balibar. GB 2003; Drammatico; Colore

Il sito italiano del film