«CINDERELLA MAN»

DI FRANCESCO MININNICi sono belle storie di vita vissuta che potrebbero servire da esempio per quanti pensano che non solo tutto va male, ma che è addirittura impensabile che possa andare meglio. I film di Frank Capra erano così: erano storie in cui l’autore credeva. Ma se queste storie diventano veicolo di propaganda per il sogno americano, bisogna pensare che il cinema (una parte di esso) lavori in aiuto di chi detiene il potere e ha bisogno di avere la certezza che la maggioranza silenziosa continua a credere in qualcosa anche se non esiste più. «Cinderella Man» di Ron Howard fa sicuramente parte di questa categoria.

Jim Braddock, pugile di origine irlandese, perde la licenza nel 1931, nel pieno della Grande Depressione. Per tirare avanti con moglie e figli trova lavoro al porto, ma senza alcuna garanzia di continuità. Alla fine del ’32 il suo manager, Joe Gould, torna a cercarlo. La federazione ha bisogno di un pugile qualunque che, senza preavviso, incroci i guantoni con un peso massimo aspirante al titolo. E Braddock, contro ogni previsione, vince. Riottenuta la licenza, continua a vincere fino ad arrivare all’incontro per il titolo mondiale con Max Baer. Diventato un simbolo della gente di strada che non molla e stringe i denti, sconfigge ogni previsione e diventa campione mondiale. Perderà il titolo con Joe Louis, ma potrà condurre un’esistenza dignitosa e serena fino alla fine dei suoi giorni.

A ben guardare, «Cinderella Man» ha molti punti di contatto con i primi due episodi della saga di Rocky Balboa. Il che vuol dire o che Stallone, quando ha scritto i due film, ha preso qualche spunto dalla vicenda di Jim Braddock, o che gli sceneggiatori Hollingsworth e Goldsman hanno tenuto presente il predecessore. Ma non è un elemento di importanza capitale. È piuttosto interessante notare come Ron Howard, un buon esecutore che soltanto in «A Beautiful Mind» ha mostrato qualche segno di crescita, diriga riproducendo in tutto e per tutto lo stile degli anni Trenta e Quaranta, al punto da farci chiedere perché mai il film non sia stato girato in bianco e nero. Ed è ancor più interessante notare come né la Depressione né il pugilato rappresentino i punti focali del film. Al centro del mirino, in ogni momento, c’è la necessità di mettere in evidenza come a Braddock, in virtù della sua tenacia, della sua dignità, della sua tranquillità e, quindi, del suo valore, sia offerta una seconda possibilità, che lui sfrutterà al meglio. E se ce l’ha fatta lui, si ripete ad ogni istante come un insistente messaggio subliminale, potete farcela anche voi. Così «Cinderella Man» diventa un film politicamente correttissimo e un buon sostegno per chi ha interesse che la gente che sta male sia veramente convinta di poter stare meglio.

Al di là di questo, «Cinderella Man» può contare su un’interpretazione di valore (ma non eccezionale: non si tratta di un personaggio ad alto coefficiente di difficoltà) di Russell Crowe. Renèe Zellweger, invece, attraversa la Depressione senza che neanche l’ombra della povertà sfiori i suoi occhi. A tutto vantaggio di Paul Giamatti che, nel ruolo di Joe Gould, si conferma caratterista di valore assoluto. Ne esce un’immagine del cinema americano che conoscevamo già: altamente professionale, felice di non rischiare niente, sostanzialmente conformista, niente più che fabbrica di sogni.

CINDERELLA MAN (Id.) di Ron Howard. Con Russell Crowe, Renèe Zellweger, Paul Giamatti. USA 2005; Drammatico; Colore