CHANGELING
DI FRANCESCO MININNI
Con tutti i difetti che gli si possono imputare, Clint Eastwood sta continuando a dimostrare una maturità che gli permette di svariare da un genere all’altro e, soprattutto, messi da parte cowboy senza nome e poliziotti tutti d’un pezzo, di raccontare più o meno da quindici anni (cioè da «Un mondo perfetto») come il mito del sogno americano debba scontrarsi con la dura realtà quotidiana. «Changeling» non ha la forza drammatica di «Mystic River» né la dolorosa durezza di «Million Dollar Baby», ma è comunque il film di un autore che pur di far conoscere le proprie ragioni è disposto a mettersi in gioco confrontandosi con un genere e un’epoca che non gli sono familiari. Il risultato, inequivocabile nei contenuti e nelle risultanze ma alterno nello stile e nella contaminazione dei generi, è comunque rassicurante sulla tenuta di un autore sul quale, prima di «Un mondo perfetto», pochi avrebbero scommesso al di là del western o del poliziesco urbano.
Si tratta di una storia vera. Nel 1928, a Los Angeles, Christine Collins denuncia la scomparsa del figlio di nove anni, Walter. Dopo sei mesi la polizia lo ritrova nell’Illinois e glielo riconsegna. Ma Christine non ha dubbi: il bambino che è tornato a casa non è suo figlio. Circonciso e più basso di sette centimetri, gli assomiglia soltanto. Nonostante l’interessamento e l’appoggio del pastore presbiteriano Briegleb, Christine dovrà scontrarsi con un sistema che non ammette errori. Finirà in manicomio, da dove potrà uscire soltanto grazie all’intervento di un principe del foro. E intanto, grazie alla prontezza di un qualunque poliziotto, si sveleranno i retroscena della scomparsa e una verità atroce.
Pur alle prese con una storia complessa e con un film di durata superiore alla media, Eastwood non concede pause e arriva in fondo (o quasi) con una invidiabile tenuta drammatica. Casomai il difetto del film sta nel suo continuo oscillare da un genere all’altro senza adottare una linea drammatica unitaria. Prima dramma popolare con una donna sola che deve crescere un figlio e svolgere tutte le funzioni che abitualmente si dividono in due, poi dramma psicologico con la reazione al ritorno del bambino sbagliato, poi pamphlet civile che prende di mira la polizia e il sistema, poi dramma della follia in stile «La fossa dei serpenti», quindi horror quotidiano con la scoperta di un ranch degli orrori che non ha niente da invidiare a «Non aprite quella porta», infine dramma carcerario con qualche annotazione sul braccio della morte. Insomma, manca la solidità strutturale laddove abbonda quella drammatica. C’è da dire, comunque, che Eastwood compensa queste incertezze con il concorso di un notevole bagaglio tecnico (la fotografia di Tom Stern, il montaggio di Joel Cox e Gary Roach, la scenografia di James J. Murakami e la musica di Clint Eastwood stesso), con l’attenta direzione degli attori (Angelina Jolie al meglio delle proprie possibilità e John Malkovich piacevolmente calato in un ruolo non sopra le righe, ma anche la precisa definizione di tutti i personaggi minori) e soprattutto con l’affermazione forte e chiara che nessun individuo possa mai essere ignorato, messo da parte o peggio perseguito da istituzioni che dovrebbero tutelarne i diritti. Se consideriamo la fede repubblicana dell’autore, bisogna convenire che non solo si è cimentato in un bell’esercizio democratico, ma ha anche dimostrato che inquadramenti e categorie lasciano il tempo che trovano. L’importante è sempre dire la propria quando sia richiesta un’opinione. E se si ha la possibilità di farlo facendosi ascoltare da milioni di persone non si è privilegiati: si hanno soltanto più responsabilità.