C’è verità e verità: «MI CHIAMO SAM»

DI FRANCESCO MININNI

C’è verità e verità. La verità vera (posto che qualcuno sappia esattamente di cosa si tratti) è quella rappresentata onestamente anche nei suoi aspetti meno accattivanti, in modo che chi riceve abbia modo di filtrare attraverso la propria sensibilità e avviare un proficuo dibattito. La verità presunta, invece, è quella che parte da una situazione reale e procede tra accomodamenti e strizzate d’occhio in modo che chi riceve non debba perdere tempo a fare i conti con la propria coscienza trovandosi già servita una soluzione di comodo che non scontenta nessuno. Nessuno, tranne i soggetti della situazione, che di solito non hanno la possibilità di replicare.

Quasi sempre, ma soprattutto quando parla di minorati psichici, il cinema americano adotta la seconda verità. Accadeva in «Rain Man», che puntava al realismo; non accadeva in «Forrest Gump», che era invece un racconto simbolico; accade in «Mi chiamo Sam» di Jessie Nelson, dove l’unico acuto realmente degno di nota sta nell’interpretazione sofferta e credibile di Sean Penn (che ha guadagnato una nomination all’Oscar), mentre tutto il resto rientra nel confortante cinema di impegno civile che, da che mondo è mondo, non ha mai contribuito a cambiare le cose.

La storia di Sam Dawson, padre per caso di una bellissima bambina ma dotato dell’intelligenza di un bambino di sette anni, interessa finché non ci si rende conto che tutti i pezzi combaciano alla perfezione in virtù di un minuzioso lavoro di sceneggiatura concepito in modo che il buonismo trionfi sulla verità.

Dopodiché, tutto diventa accettabile: che prima del settimo compleanno di Lucy nessuno si accorga della «particolarità» del padre; che Rita, avvocato di grido, accetti di difendere Sam gratuitamente nella causa dove è messa in discussione la sua patria potestà; che la stessa Rita abbia una situazione matrimoniale disastrata e tragga da Sam più di quanto non riesca a dargli; che la possibile madre adottiva di Lucy si sciolga in lacrime pensando che non sarà mai in grado di pareggiare l’amore di Sam per la piccola; che infine, a cose fatte, tutti si ritrovino su un campo di calcio senza che nessuno ci informi dell’esito processuale. Perché a Hollywood basta vedere tutti sorridenti e tutti insieme per convincersi che, nonostante tutto, la storia è finita bene.

La prevedibilità dell’assunto e una seconda parte dilatata oltre il necessario non devono comunque far dimenticare che un attore come Sean Penn, di solito tutt’altro che simpatico e accattivante, riesce a vincere una difficile scommessa facendo proprio il film e reclamando il merito di un risultato che, almeno nelle intenzioni, è sicuramente positivo.

MI CHIAMO SAM di J.Nelson. Con S.Penn, M.Pfeiffer, D.Wiest, L.Dern.