Caso Orlandi, la «verità» di Faenza
Roberto Faenza non è né un analista storico né un equilibrato esaminatore di fonti. A quanto emerge da La verità sta in cielo, ricostruzione in chiave noir con un fortissimo retrogusto polemico della vicenda di Emanuela Orlandi, è un narratore poco obiettivo che punta soltanto a far emergere la propria verità, ovvero quella parte di verità che può indirizzare l’opinione pubblica a conclusioni frettolose. Nel caso specifico, potremmo chiederci perché mai fra le migliaia di testimonianze sulla scomparsa nel giugno 1983 della quindicenne figlia di un messo pontificio, Faenza abbia scelto come fondata quella di Sabrina Minardi, tossicodipendente, ex-moglie del calciatore Bruno Giordano e amante di Enrico De Pedis, detto Renatino, detto Dendi, elemento di spicco della banda della Magliana. Forse perché, più di altre, quella testimonianza rilasciata in video a una giornalista adombrava pesanti responsabilità del Vaticano, specificamente dei cardinali Casaroli e Marcinkus. Ma anche perché, come ogni delirio che si rispetti, rendeva difficilissimo separare il vero dal falso evocando episodi storicamente confermati per giustificare automaticamente una valanga di invenzioni.
Sembrerebbe proprio che il rapimento di Emanuela Orlandi sia strettamente collegato alle manovre finanziarie dello IOR e del cardinale Marcinkus, colpevole di aver riciclato ingenti somme di provenienza mafiosa senza poi restituire il denaro pulito. Partendo da questo, il film ha un andamento molto più simile a «Romanzo criminale» che a un’inchiesta giornalistica seria e documentata. Un segreto dopo l’altro, un morto dopo l’altro, una bugia dopo l’altra, le due giornaliste che lavorano parallelamente al caso arrivano a una conclusione già scritta: basterebbe che il Vaticano rendesse pubblico il dossier segreto su Emanuela per chiarire ogni mistero. Da questo la domanda: se non si decidono a consegnarlo alle autorità italiane, quale può essere il motivo? Da cui una risposta campata in aria: evidentemente c’è coinvolto qualche alto prelato.L’unica certezza è che Papa Francesco ha detto a Pietro, fratello di Emanuela: «Lei è in cielo». E così Faenza ha trovato il titolo per il film.
Si noterà come di tutti i personaggi di spicco presenti nel film soltanto di quelli residenti in Vaticano si facciano i nomi: cardinale Agostino Casaroli, cardinale Paul Marcinkus. Gli altri sono uomini politici, sottosegretari, alte cariche dello Stato cui viene concesso il beneficio dell’anonimato. Verrebbe da pensare che a Faenza, a Raffaella Notariale (la giornalista collaboratrice di «Chi l’ha visto?») e a Pier Giuseppe Murgia (coautore della sceneggiatura) stia più a cuore puntare l’indice accusatore sul Vaticano (prima e dopo Papa Francesco, naturalmente) che contribuire onestamente alla ricerca della verità. Non a caso, il dialogo tra un cardinale e un procuratore nel quale, in cambio della rimozione della salma di De Pedis da Sant’Apollinare il Vaticano si impegna a trasmettere alle autorità il famoso dossier, non è mai avvenuto nonostante le dichiarazioni di Faenza che ne rivendica l’attendibilità. Insomma, la confusione regna. E la confusione è tanto maggiore in quanto nel film vengono mescolati con disinvoltura eventi accaduti e altri del tutto fantasiosi, in modo che diventi veramente difficile farsi un’opinione basata sui fatti e ci si debba accontentare di una generica verosimiglianza.
Il punto è che con la Storia non si scherza. E neanche col cinema. La verità sta in cielo, procedendo come una doppia indagine giornalistica, una italiana e una inglese, finisce per assomigliare più alla lettura di una sceneggiatura che a un film finito. Viene da pensare che la penna di Leonardo Sciascia o la macchina da presa di Elio Petri ne avrebbero ottenuto un altro risultato. Col suo film, invece, Roberto Faenza ha ottenuto soltanto il plauso de «Il fatto quotidiano» e gli anatemi di «Famiglia cristiana». Della serie: quelli che si accontentano.