BlackkKlansman
Non è facile inquadrare BlackkKlansman di Spike Lee in un preciso genere cinematografico. Il fatto che si basi interamente su fatti realmente accaduti negli anni Settanta, narrati dal poliziotto di colore Ron Stallworth in un libro autobiografico, indurrebbe ad optare per lo storico. D’altronde il tono adottato da Lee nel racconto farebbe propendere per la commedia o per il grottesco. E comunque la serietà degli avvenimenti narrati indicherebbe drammatico.
Quel che è certo è che Spike Lee, nell’affrontare senza mezze misure la problematica razziale che si annida ovunque negli Stati Uniti ma prospera soprattutto nel profondo Sud («Perché non vieni a trovarci in Louisiana. Qui noi giochiamo» sentenzia il gran maestro del Klan David Duke), ha voluto fortemente allestire una torta a più strati di modo che la seriosità non gli prendesse la mano (come accadeva ai tempi di Fa’ la cosa giusta) portandolo a pontificare o a lasciarsi trascinare dall’odio o dalla polemica. Ha voluto, insomma, che le tematiche razziali passassero attraverso il filtro del grottesco, sapendo benissimo che comunque il messaggio sarebbe arrivato forte e chiaro. Poi può anche darsi che non tutti i toni siano stati amalgamati nella maniera giusta. BlackkKlansman (dove la k in più serve a comporre l’acronimo del Klan) è comunque un film potente e talvolta contraddittorio che ottiene i risultati che vuole senza andare troppo sopra le righe. Perché, se è vero che alcuni membri del Klan sembrano caricature, è altrettanto vero che lo sono nella realtà. Caricature molto pericolose.
Ron Stallworth entra in polizia a Denver e desidera affrancarsi quanto prima dal lavoro di archivista per agire sul campo. Quando ne ha l’occasione, non ci pensa due volte. Telefona al centralino del Ku Klux Klan fingendosi un bianco molto razzista e fissa un appuntamento per avviare le procedure d’iscrizione. Ne consegue automaticamente che ci vorrà un poliziotto bianco che spacciandosi per lui agisca sotto copertura. Tocca a Zimmerman, detto Flip, che è ebreo e deve professarsi sostenitore della pura razza ariana. Il gioco è difficile da portare avanti, tra equivoci e sospetti, fino al momento in cui si prospetta un’azione dimostrativa denominata «fuochi artificiali». Quando i nodi vengono al pettine, le identità sono svelate e Stallworth e Zimmerman riescono a bloccare l’ingranaggio. A David Duke, gran maestro del Klan, toccherà tornarsene nel Sud sconfitto.
Tanto per chiarire che ha raccontato una battaglia vinta in una guerra ancora in corso, Lee inserisce nel finale inserti documentari che testimoniano gli scontri di Charlottesville del 2017, le dichiarazioni di superiorità della razza del vero Duke, un discorso pubblico di Donald Trump sulla necessità di far tornare grande l’America e la constatazione che «America First», prima che invocato da Trump, era stato lanciato proprio dal Klan.
Se poi qualcuno rimpiange lo Spike Lee arrabbiato e urticante, dovrebbe comunque tener presente che i tempi cambiano e che all’interno di questi cambiamenti è praticamente impossibile che le persone rimangano esattamente le stesse. A noi è parso che Lee abbia operato una scelta ragionata sui toni del racconto e che questo corrisponda a una maturazione interiore che in ogni modo non sarà mai pacificazione. Perché, mentre potere bianco e potere nero continuano a combattersi per la supremazia, entrambi dimenticano che l’America è nata sul genocidio totale della razza che per prima l’abitava. Da questo nascono contraddizioni in quantità anche soltanto per il tacerlo, come se l’invenzione del western per costruirsi una storia non vera fosse sufficiente a nascondere la verità. Nella parte di Jerome Turner, che rievoca violenze passate, si rivede il novantenne Harry Belafonte, che si è sempre battuto per i diritti della razza. E Topher Grace, che interpreta David Duke, è abbastanza sorridente per diventare inquietante.
BLACKkKLANSMAN (Id.) di Spike Lee. Con John David Washington, Adam Driver, Topher Grace, Laura Harrier, Jasper Paakkonen, Harry Belafonte. USA/2018; Drammatico; Colore.