Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)
Nove nomination all’Oscar, fortuna critica oscillante tra grande film e capolavoro, consenso del grande pubblico incondizionato. Viene da chiedersi se davvero tutto ciò trovi riscontro nella qualità del film. E la risposta è tutt’altro che facile da dare.
Riggan Thomson ha ottenuto grande successo popolare interpretando il supereroe Birdman. Poi, però, ne ha smesso i panni e ha deciso di convincere se stesso e tutto il mondo di essere anche un grande attore (serio). Per fare ciò ha scelto il testo di Raymond Carver «Di cosa parliamo quando parliamo d’amore» e ne cura l’adattamento, la regia e l’interpretazione su un palcoscenico di Broadway. Compagni nel cammino gli sono il coprotagonista Mike Shiner, l’agente Jake, la figlia Sam, l’amante Laura e l’attrice Lesley. Ma più che altro gli è a fianco (più spesso alle spalle) Birdman, che cerca continuamente di convincerlo a lasciar perdere e a tornare ai blockbuster. L’ego è palesemente sdoppiato: da una parte quello di Riggan, dall’altra quello di Birdman. Ciò lo porterà a una decisione fatale: quella cioè di usare una pistola vera per la scena del suicidio la sera della prima.
È fuor di dubbio che la prima preoccupazione di Iñàrritu sia per l’aspetto formale del film. «Birdman» è composto quasi unicamente da piani sequenza che costringono gli attori a un faticoso tour de force per non sbagliare un movimento, un tempo d’entrata, una posizione. E indubbiamente la forma del film è non solo lussuosa, ma anche coraggiosa, perché il piano sequenza usato con continuità non è mai garanzia di approvazione popolare.
C’è da dire anche che l’autore ha previsto una narrazione criptica che non permette mai di essere sicuri che quanto vediamo stia avvenendo realmente o se piuttosto non si svolga nella mente del protagonista con i suoi incubi, i suoi fantasmi e le sue donne del passato e del presente. Da qui potremmo arrivare facilmente ad invocare la provenienza di qualche idea da Robert Altman (quello de «I protagonisti», di «America oggi» e di «Radio America») o da Federico Fellini (il più grande, quello di «Otto e mezzo»). E, facendo un ulteriore passo avanti, potremmo chiederci se Iñàrritu abbia elaborato idee proprie o altrui e se tutta la sua cura formale sia effettivamente applicata a qualcosa di sostanzioso o a una folata di vento che qualcuno ha scambiato per una tempesta. È molto probabile che la verità stia nel mezzo.
Fermo restando che «Birdman» è un film molto più formale che di contenuto, bisogna ammettere che il puntiglio e le acrobazie di Iñàrritu ottengono un risultato affascinante e tecnicamente eccellente. È anche vero, tuttavia, che il tema cui questo virtuosismo è applicato è stato già ampiamente trattato in passato e che le variazioni sono minime. Il rapporto dell’artista con il successo, la differenza tra ruoli popolari e ruoli impegnati, la doppia personalità dell’artista stesso che finisce per materializzare il personaggio (in fondo l’antagonista), persino l’esplorazione di una mente fragile e contorta all’interno della quale si svolge buona parte del film, sono tutte cose già note da «Viale del tramonto» a «La metà oscura», da «Luci della ribalta» a «Donnie Darko», da «Harvey» a «Happy Family».
Non parleremmo pertanto di capolavoro, ma di esperienza più bizzarra che geniale. In fondo, anche «21 grammi» faceva pensare che, senza tutti quei virtuosismi di montaggio che scombinavano l’andamento cronologico della storia, il tutto si sarebbe rivelato un po’ più banale e comune. Positiva, senza dubbio, la prova degli attori. Soprattutto di Michael Keaton e Edward Norton alle prese con due personaggi apertamente autobiografici.
Anche i dubbi sul fatto che Riggan sia davvero in grado di volare sono soltanto un giochetto di Iñàrritu per strizzare l’occhio al pubblico e indurlo a porsi domande inutili ma apparentemente fondamentali. Giochi di prestigio.