Bilancio di fine anno a dimostrazione che non tutto è da buttare

di Francesco Mininni

Non siamo economisti, né sociologi, né politologi e nemmeno pessimisti. Per questo, senza pretendere di essere una voce fuori del coro, non parleremo di crisi. Anzi, accingendoci al nostro consueto esercizio di menzione di merito per quei film che nel corso dell’anno si sono distinti per diversi motivi, ribadiamo la nostra ferma convinzione che non tutto è da buttare e che, lavorando, si ottiene sempre qualcosa. Lo sa Woody Allen che, accantonate per una volta le proprie problematiche esistenziali e più consolatorie che autocritiche, ha riscoperto il gusto del racconto, del sogno e della difesa appassionata di un retaggio culturale in Midnight in Paris.

Lo sa Francesco Bruni che, esordendo nella regia con Scialla!, nel tratteggiare con semplicità un complesso rapporto tra un padre e un figlio, si è anche ricordato di spezzare una lancia in favore dell’istruzione e dello studio dimostrandosi positivamente controcorrente. Lo sa George Clooney che, profondamente deluso dall’andamento della classe politica americana, non ha esitato a sparare a zero analizzando ne Le idi di marzo i meccanismi del potere, la tentazione del successo e il crollo delle ragioni etiche. Lo sanno Luc e Jean-Pierre Dardenne che, fedeli a se stessi nella ricerca di dolorose problematiche contemporanee, ne Il ragazzo con la bicicletta non esitano a mettere in scena un autentico miracolo dettato unicamente dalle ragioni dell’amore.

Lo sa Asghar Farhadi che, incurante delle molte limitazioni imposte dal regime iraniano, in Una separazione racconta problematiche legate all’intolleranza, al fanatismo religioso e a tutte le voci degli ultimi che di solito nessuno si disturba ad ascoltare. Lo sa Robert Guediguian che, ne Le nevi del Kilimangiaro, mette in scena una vicenda che parla di lavoro, di fiducia tradita, di possibile vendetta e, alla fine, di solidarietà assoluta. Lo sa Tom Hooper che, ne Il discorso del Re, rievoca con gusto e ironia la dura battaglia di Re Giorgio VI contro la balbuzie e la sua vittoria dovuta all’intervento di un logopedista australiano, con il contributo di due attori straordinari come Colin Firth e Geoffrey Rush. Lo sa Aki Kaurismäki che, in Miracolo a Le Havre, finge un ottimismo che può liberarsi in tutta la sua forza soltanto nei confini di una favola, ma che non manca di puntare il dito contro molti angoli oscuri del vivere contemporaneo.

Lo sa Mike Leigh che, nonostante continui a mantenersi sul versante pessimista del pensiero, in Another Year rappresenta problematiche esistenziali e familiari di diverso genere con toni quieti che inducono più alla serenità che alla disperazione. Lo sa Pasquale Scimeca che non esita ad aggiornare Giovanni Verga realizzando un Malavoglia che si prende persino la libertà di cambiare il finale del romanzo mostrando comunque grande rispetto e notevoli competenze ambientali ed espressive. Lo sa Paolo Sorrentino che vola in America, scrittura Sean Penn, viaggia nei luoghi di Easy Rider e Punto zero e, ciò nonostante, riesce nell’impresa di comporre un film personalissimo e spiazzante come This Must Be the Place.

Lo sa Aleksandr Sokurov che, con il suo Faust lontano da ogni romanticismo, realizza un film durissimo e impegnativo sul destino dell’uomo e su un autolesionismo che conduce all’autodistruzione. Lo sa Denis Villeneuve che, con La donna che canta, reclama il titolo di miglior film dell’anno: un percorso doloroso e salvifico che attraverso violenza e incomprensione conduce alla conoscenza, alla presa d’atto di una verità e a un’imprevedibile possibilità di ripartenza.

E lo sappiamo anche noi che, pur prendendo atto della crisi mondiale che stiamo attraversando, ci accontentiamo di aver fatto tredici.