«APOCALYPTO»

DI FRANCESCO MININNIFrancamente non comprendiamo le roventi polemiche suscitate dal film di Mel Gibson «Apocalypto» in ragione della sua violenza, della mancanza di un divieto ai minori (in Italia), della brutalità e quant’altro. È da tener presente, ad esempio, che alcune minacciose frasi di lancio del genere «teste scarnificate, stupri, corpi squartati» non corrispondono affatto a ciò che poi il film è in realtà. C’è un cuore ancora pulsante estratto dal petto del nemico (c’era anche in «Indiana Jones e il tempio maledetto»). Ci sono corpi trafitti da lance e frecce (avete presente il western?). C’è un marchingegno con punte acuminate nascosto nella boscaglia e pronto a trafiggere l’incauto passante (avete presente il Vietnam?). Quanto agli stupri, ce n’è uno appena suggerito e immediatamente celato da una capanna e dai cespugli.

Si ha come l’impressione che, dopo «La passione di Cristo», qualcuno attendesse al varco Mel Gibson per fargli scontare non sappiamo quale peccato. «Apocalypto», che a conti fatti è molto meno violento di «Braveheart» e de «La passione» stessa, è stato usato dai detrattori in modo assolutamente improprio.

A meno che, naturalmente, tutto il can-can non sia stato organizzato dalla produzione (quindi da Mel Gibson stesso) per creare un nuovo caso. Che in realtà non c’è.

La civiltà dei Maya, nata, cresciuta e finita in Messico lasciando dietro di sé notevoli reperti architettonici e un gran punto interrogativo antropologico, è sempre stata toccata di striscio dal cinema. Con «I re del sole» di J. Lee Thompson del 1963, con qualche horror corredato di maledizioni ataviche, con la necropoli su cui è costruito il covo dei vampiri in «Dal tramonto all’alba» di Robert Rodriguez del 1996. Ora, non è che Mel Gibson abbia voluto gettare nuova luce sul mistero. Più semplicemente ha realizzato un kolossal per ribadire la propria sfiducia nell’uomo, capace soltanto di distruggere se stesso e i propri simili, e la propria fiducia nelle imprese spettacolarmente complesse. Se infatti si intravedono, qua e là, soprattutto nella prima parte, interessanti notazioni tribali e antropologiche, non ci vuol molto ad accorgersi che, sotto la scorza del ricercatore, batte sempre forte il cuore del guerriero. Così, da quando i guerrieri Holcane distruggono il villaggio di Zampa di Giaguaro e riducono in schiavitù i suoi occupanti portandoli al tempio per i sacrifici alla divinità, «Apocalypto» smette di essere un documento etnico e si trasforma in azione pura senza preoccuparsi di mostrare parentele e ricorsi.

A questo punto, pur apprezzando la fotografia di Dean Semler, i make-up di Signoretti e Sodano, le accelerazioni della macchina da presa Genesis, il tour de force di attori e regista in una foresta che, salvo errori, è proprio vera e quindi non sempre disposta a collaborare, e naturalmente l’uso della lingua yucateca opportunamente sottotitolata, ci resta il dubbio su quanto «Apocalypto» sia dettato da necessità e ispirazione e quanto invece rappresenti un’operazione assai meno rischiosa e commercialmente più sicura de «La passione di Cristo». Meno violento, più rassicurante nel suo contenitore spettacolare persino classico, più prevedibile e, perché no, molto meno utile.

APOCALYPTO (Id.) di Mel Gibson. Con Rudy Youngblood, Dalia Hernandez, Raoul Trujillo. USA 2006; Avventura; Colore