American sniper
Ciò porta a due conseguenze diametralmente opposte: giustificazione a priori di qualunque sua opera in nome di una sorta dell’aristotelico «ipse dixit» oppure dubbi e dilemmi (sempre a priori) dovuti al suo elogio dell’individualismo, all’appartenenza al partito repubblicano, a una sorta di nostalgia per i vecchi tempi e alla ricorrente accusa di essere un inguaribile reazionario. In entrambi i casi si va oltre il merito o il demerito della singola opera e pertanto si sbaglia.
«American Sniper» (dove sniper ha il significato di tiratore o cecchino) giunge a proposito per rinfocolare le polemiche da una parte e per permettere di fare il punto della situazione dall’altra.
Chris Kyle sente la necessità interiore di servire la patria e si arruola nella Marina nel 1999 diventando un Navy Seal e venendo assegnato alle operazioni in Iraq.
Diverrà il tiratore più celebre dell’esercito (c’è chi dice che abbia ucciso 250 nemici, ma il Pentagono ne conferma soltanto 160), ribattezzato dagli insorti «il diavolo di Ramadi», decorato con dieci medaglie e autore di un’autobiografia di successo. Morirà nel 2013 in un poligono di tiro, colpito da un commilitone affetto da disturbo post traumatico da stress che lui seguiva per il recupero.
È evidente che «American Sniper» non può essere liquidato come film reazionario ispirato e sorretto dal culto dell’eroismo. Eastwood non nasconde le proprie convinzioni sulla guerra giusta, sul senso della patria, sul senso del dovere e sul valore del singolo.
Ma York, finita la guerra, tornò alla famiglia e alla sua attività di agricoltore (una sorta di Cincinnato) mentre Kyle, tornato a casa, non riesce a lasciare dietro di sé l’idea della guerra, incontra enormi difficoltà a riprendere un’esistenza normale e non a caso muore (fuori campo) per un colpo d’arma da fuoco, il cosiddetto fuoco amico. Eastwood non ha bisogno di esprimere questo concetto a parole: bastano le immagini dell’Iraq, dove Kyle ha potere di vita e di morte su uomini, donne e bambini su ciascuno dei quali la scelta è lasciata a lui secondo le cosiddette regole d’ingaggio, per spiegare come l’entusiasmo e l’eroismo siano sempre medaglie a due facce e come la fama di «cecchino americano» possa anche diventare una sorta di maledizione.
Come dire che la guerra, anche se a rappresentarla è qualcuno che ne concepisce l’utilità, proprio non può fare a meno di far emergere i suoi molti lati oscuri sollevando quesiti morali che non perderanno mai interesse.
In questo senso un attore non straordinario come Bradley Cooper si rivela ideale per il ruolo del protagonista: prima deciso, testardo e ostinato, poi alla ricerca di una giustificazione morale, quindi incapace di liberarsi di quanto costruito, infine travolto dagli eventi (cioè dal passato).
Clint Eastwood racconta tutto questo con uno stile secco e coinvolgente avendo l’intelligenza di non fossilizzarsi su un punto di vista ma di acquisire anche elementi critici e dissonanti che permettono un confronto e un dibattito.
Che poi tutto si concluda con lo sventolio della bandiera americana (come «Salvate il soldato Ryan», ma non come «Platoon») fa parte del gioco.