AMERICAN GANGSTER
DI FRANCESCO MININNI
Chissà perché, la figura di Frank Lucas così come rappresentata da Ridley Scott in «American Gangster» ci ricorda molto, per analogie e dissonanze, don Vito Corleone, patriarca de «Il padrino». Le analogie saltano agli occhi: una famiglia numerosissima interamente coinvolta nell’attività criminale, un potere quasi illimitato, la convinzione di rispettare rigorosamente il trittico Dio, patria e famiglia, una capacità imprenditoriale a tutta prova. Le dissonanze risiedono nel colore della pelle (Lucas è afroamericano), nella volontà puntigliosa di tenersi al di fuori delle luci della ribalta, nell’interesse quasi esclusivo per il mercato della droga. A ben guardare, sembra addirittura incredibile che una persona così, capace di rivoluzionare il mercato andando a comprare la merce direttamente all’origine (cioè in Vietnam) e di rivenderla come «Blue Magic» quasi pura e a prezzi abbastanza contenuti, sia riuscita a eludere per tanto tempo le attenzioni della polizia. D’altronde, è anche vero che quando Lucas finì dietro le sbarre, la sua collaborazione portò all’incriminazione di tre quarti della squadra narcotici di New York. Quindi, c’era chi non vedeva e chi non voleva vedere. Tutto questo è raccontato da Scott con il freddo manierismo che ben conosciamo e che se non altro gli permette di tenersi alla larga da trappole sentimentali e di organizzare il film, per quanto possibile, come una cronaca secca e priva di fronzoli del confronto a distanza tra un boss e un poliziotto.
Già, perché dall’altra parte della barricata c’è Richie Roberts. Visto con non particolare simpatia dai colleghi da quando aveva restituito alle autorità un milione di dollari sporchi invece di tenerseli o di dividerli con gli altri, lasciato dalla moglie per motivi analoghi (onestà pubblica, vizi privati), ridotto a festeggiare il giorno del Ringraziamento con un panino al tonno in contrapposizione al tacchino di Frank, Richie rappresenta comunque un’interessante alternativa allo strapotere del crimine. Ed è singolare come Scott individui l’inizio della caduta di Frank con un cappotto di cincillà indossato in occasione del match di boxe Alì/Frazier ed esibito in un posto di ring. Come dire che nel momento in cui il boss esce dall’anonimato con un’eleganza e un potere sospetti, è importante che ci sia qualcuno a capirlo. In questo percorso parallelo si può ravvisare qualche analogia con «Heat» di Michael Mann: film molto lungo, due superstar, metà film ciascuno, fatidico incontro soltanto al momento della resa dei conti.
Da quanto abbiamo detto si potrebbe trarre l’impressione di un film che, alla fine, non racconta niente di nuovo. Ed è così: in condizioni normali avremmo parlato di un blockbuster con tutte le carte in regola per stravincere nella gara degli incassi e magari per racimolare anche qualche Oscar. Ciò che rende le condizioni non esattamente normali, tuttavia, è l’interpretazione di Denzel Washington. Certo, Russell Crowe interpreta a memoria un personaggio che gli è familiare e assai congeniale. Ma Washington si impadronisce del film interpretando con potenza un personaggio ricco di ambiguità che non gli è affatto familiare: Frank Lucas non è né il poliziotto corrotto di «Training Day» né l’ammazzatutti di «Man on Fire». È un personaggio talmente ricco di sfumature da rendere persino difficile inquadrarlo per intero nella parte di lavagna riservata ai cattivi. Forse, alla fine, i meriti di «American Gangster» sono più di Washington che di Scott.
AMERICAN GANGSTER (Id.) di Ridley Scott. Con Denzel Washington, Russell Crowe, Josh Brolin, Carla Gugino, Armand Assante. USA 2007; Drammatico; Colore