«AMERICAN DREAMZ»

DI FRANCESCO MININNIL’America è un calderone dove bollono praticamente senza interruzione il potere, i mass-media, il folklore, le stanze dei bottoni, le sagre paesane, il dilemma tra avere ed essere, la violenza, la democrazia, Dio, patria e famiglia e quant’altro. Di tutto, di più. Gran materiale per dramma sociale, dramma poliziesco, dramma esistenziale. Ma ancor più grande per la satira.

La satira è una forma di critica sociale e politica che passa attraverso lo sberleffo. Il risultato è direttamente proporzionale alla caratura della persona che la esercita. È evidente che sono esempi di satira sia «Nashville» di Robert Altman, sia «The Truman Show» di Peter Weir, sia «Tutti pazzi per Mary» di Peter e Bobby Farrelly. Ed è evidente che, mentre Altman e Weir occupano il gradino più alto, i Farrelly si accontentano degli avanzi. Il caso di «American Dreamz» di Paul Weitz è in una certa misura particolare. Se da una parte ambisce a radiografare il presente a 360°, dall’altra non mostra una base realmente seria che gli permetta di passare dallo sberleffo alla critica consapevole e meditata. In America il film di Weitz (quello di «American Pie» e «About a Boy») non è piaciuto. Qui esce in una stagione solitamente infelice per gli incassi. Senza che sociologi e analisti del costume si scomodino, avrebbe almeno meritato quella che si definisce un’attenzione distratta.

Tutto ruota intorno alla trasmissione televisiva «American Dreamz», in testa agli ascolti, condotta dal supercinico Martin Tweed e necessaria a molte persone in calo di autostima. A Sally Kendoo, che dal karaoke nell’Ohio vuole approdare in prima serata nazionale. A Omer, terrorista iracheno sfortunato, allibito all’idea che il pubblico possa tributargli una standing ovation. Persino al presidente degli Stati Uniti, afflitto da depressione nonostante abbia appena ricevuto il secondo mandato. E naturalmente ai terroristi veri che, in occasione della finale, convincono Omer a indossare una cintura esplosiva che dovrà «mozzare la testa al serpente». Un reduce dall’Iraq, l’unico ad aver capito come vanno le cose, sconvolgerà i piani di tutti.

Non c’è dubbio che «American Dreamz» abbia qualche freccia al proprio arco. Soprattutto il personaggio del reduce che, assai più serio che buffonesco, dovrebbe servire da cattiva coscienza per tutto quel pubblico che, fino a pochi minuti dalla conclusione, avesse riso a crepapelle. Sull’altro piatto della bilancia, però, pesano Sally Kendoo, concentrato di tutte le oche di provincia che sognano quindici minuti di popolarità, e il povero presidente, troppo stupido e grottesco per funzionare come caricatura di Bush. Al centro Hugh Grant, che ovviamente va a nozze con il personaggio del cinico e amorale uomo di successo. Riconosciamo a Weitz, forse mentre sparava nel mucchio, di aver colto qualche bersaglio. Ma la vera satira non consiste nello sparare nel mucchio: è fatta molto più di freni che di acceleratore. Si chiama misura.

AMERICAN DREAMZ (Id.) di Paul Weitz. Con Hugh Grant, Dennis Quaid, Willem Dafoe, Mandy Moore. USA 2006; Commedia; Colore