Alì ha gli occhi azzurri

Giovannesi ha studiato cinema, ha studiato le periferie, ha studiato il difficile mestiere del ragazzo di strada, ha studiato i conflitti etnici esteriori ed interiori e da tutto questo, filtrandolo attraverso l’esperienza di spettatore appassionato dei primi film di Pasolini, ha tratto un racconto morale con molto realismo e poca speranza. Intendiamoci: con speranza non stiamo parlando di un lieto fine che stonerebbe dando vita a un contrasto stridente, ma piuttosto della possibilità che a questi ragazzi sia proposta una strada seguendo la quale potrebbero provare ad uscire da un ghetto che al momento è l’unico mondo che conoscono. Quella speranza che, un attimo prima di morire, faceva dire ad Accattone «Mo’ sto bene» qui non c’è. «Alì ha gli occhi azzurri» è un titolo che nasce proprio da Pasolini, che nel 1965 diede alle stampe una raccolta di scritti dal titolo «Alì dagli occhi azzurri» dove, in «Profezia», parlando dei popoli oppressi del terzo mondo, diceva «…deponendo l’onestà delle religioni contadine, dimenticando l’onore della malavita, tradendo il candore dei popoli barbari, dietro ai loro Alì dagli occhi azzurri usciranno da sotto la terra per uccidere…».
E a conferma che il titolo è evidentemente simbolico, dove Alì sta a rappresentare un’intera genia, il protagonista si chiama Nader, egiziano a Roma. Ha un amico, Stefano, conosciuto a scuola, con il quale ogni tanto realizza qualche colpetto di poca entità. Ha una famiglia, cioè un padre, una madre e una sorella. E ha anche una ragazza italiana, Brigitte, che ama a dispetto dell’opposizione dei genitori che gli ricordano le enormi differenze di etnia e religione. Ma Nader ripete a più riprese di essere romano, non egiziano, porta lenti a contatto azzurre per correggere il colore degli occhi e pur di stare con Brigitte se ne va da casa dormendo dove capita e accettando l’aiuto di tutti. Salvo tornare improvvisamente egiziano quando proprio l’amico Stefano dimostra interesse per la sorella.